giovedì 24 dicembre 2015

Il sonno della forza genera mostri

Possiamo anche chiamarla recensione, ma è più che altro un insieme di cose che voglio dire su Star Wars Episodio VII, Il risveglio della forza. Lascio le recensioni a chi ne capisce più di me, e gli insiemi delle cose da dire a chi ne capisce altrettanto, o meno. Ovviamente non sono ottimista riguardo alla capacità di ciascuno di valutarsi...
Mettiamo subito le cose in chiaro: se per voi "Star Wars non è fantascienza" allora "Questa non è la recensione che state cercando". Perché si soffermerà su questo punto, tanto accanitamente quanto sterilmente dibattuto, giusto il tempo necessario a darvi torto.
L'appartenenza di un'opera a un genere (letterario o cinematografico) ha basi storiche e sociologiche; non è qualcosa che per capriccio o per eroica difesa della categoria possano stabilire l'ultimo degli scribacchini o il primo dei maestri indiscussi dell'estrapolazione straniante e trasformativa della società. Che SW sia soltanto un tipo di fantascienza, e che altri tipi possano piacere di più ed essere più rappresentativi e vicini all'ideale di genere, l'accetto senza problemi.
Ma rifiutare di ascrivere un'evidente Space opera al genere fantascientifico mi ricorda il comportamento di quello che, vergognandosi delle proprie origini popolari, a chi chiedesse chi fossero i suoi avi, rispondeva "l'antenato sono io". Fantascienza non è solo sinonimo di qualità, profondità, speculazione ecc. Fantascienza sono anche le astronavi, i robottoni, i laser, i pianeti che esplodono, le venusiane che corrono mezze nude. E l'evoluzione che la fantascienza ha avuto a partire dagli anni Cinquanta, prima con la social science fiction e poi con l'inner space, con Ballard, Lem, Dick, Le Guin è stata bellissima e necessaria a ridefinire il genere. Ma per un certo tempo la fantascienza è stata erede delle edisonate e dei romanzi coloniali e rispetto a quest'ultimi è stata praticamente solo un mutamento d'ambientazione per l'avventura, senza velleità estrapolative. Inoltre, anche se così non fosse, ritengo che il pubblico sia il giudice ultimo per dire se una cosa è fantascienza o meno. Anche con questo criterio, Star Wars è fantascienza e negarlo perché sperate in una fantascienza migliore mi pare, quello sì, una narrazione del tutto personale, escapista e d'evasione.


Ma veniamo al film. Mi è piaciuto molto, ma non lo ritengo un capolavoro. Negli ultimi anni, al cinema ho visto due o tre film di fantascienza migliori, come Interstellar, Cloud Atlas e anche alcuni film non di genere che mi hanno interessato e coinvolto di più. Ma, in sette giorni, Il risveglio della forza l'ho visto due volte, e tra una visione e l'altra ho letto molte opinioni e recensioni e ci ho riflettuto abbastanza anche per scrivere queste righe. E la seconda volta il film mi è piaciuto più della prima. Segno inequivocabile di una fulminante invasione memetica dell'immaginario, a cui si cede consapevolmente o volontariamente. Ho ceduto volontariamente, e penso sempre di più che buona parte del piacere di Star Wars sia il suo essere epica contemporanea, coi tratti fondanti di questo tipo di narrazione: quello contenutistico (lotta superomistica tra bene e male), quello strutturale (ripetitività di schemi e forme) e quello sociologico (aspetto 'identitario'; diffusione e riconoscibilità dell'opera; possibilità di trovare un vasto numero di persone che hanno una conoscenza approfondita). Formulo il paragone con una domanda: quanti individui nel mondo conoscono Darth Vader (così come Harry Potter o Frodo) e quanti Ulisse (così come Beowulf o Orlando)?

Ho molto da dire e temo che se non lo facessi per punti non finirei più. Mi limito a fare una lista di pro e di contro.

PRO

– Come sempre, SW è uno spettacolo per gli occhi, costantemente sgranati e stupiti di fronte alle ambientazioni, alle astronavi, ai pianeti, alle creature, persino agli elementi della cultura materiale dei personaggi. Alcuni più di altri. E in questo episodio a colpirmi è stato soprattutto lo sguardo archeologico, a strati, rivolto alle vestigia che le civiltà lasciano nel loro fiorire e declinare: la protagonista che prima di iniziare la sua avventura abita in un Camminatore AT-AT e che poi fa volare il Millennium Falcon all'interno del relitto di uno Star Destroyer semicoperto dalla sabbia; quella sorta di palazzotto a guglie trasformato in un pub o una cantina sociale sul pianeta di Maz Kanata; il fatto stesso che Luke Skywalker sia impegnato alla ricerca del primo tempio Jedi.

– Sempre per quel che riguarda l'aspetto visivo, ho apprezzato i combattimenti. Non sono un conoscitore, ma mi sembrano più realistici rispetto alla seconda trilogia: nella galassia repubblicana il combattimento con la spada laser è una disciplina marziale, un'arte, quasi una danza. Poi negli episodi IV, V e VI, la disciplina degenera (mi rendo conto che è anche perché gli episodi sono precedenti) e si fa meno elaborata. In questo episodio VII anche la spada laser diventa uno strumento di sopravvivenza. Non "wow, una spada laser", ma quasi un'arma con cui combattere in mancanza di altro, come avviene per Finn. Mi pare un'evoluzione credibile.

– Novità rispetto alle trilogie precedenti: il citazionismo. Non solo dei film pregressi, ma anche di elementi riconoscibili della storia del cinema o della storia tout court. Mi vengono in mente la scena degli elicotteri al tramonto in Apocalypse now, riproposta con i Caccia TIE, e i raduni nazisti di Norimberga rievocati dalle masse ordinate di Stormtrooper, dal tono del despota di turno e dal rosso vivo degli stendardi.

– L'istituzione malvagia di turno, il Primo Ordine, un misto tra il Nuovo Ordine Mondiale e l'efficientismo nazista contaminato da un pensiero mistico-magico (di modo che i Sith possano farne parte). Sorta dalle recenti ceneri dell'impero, non è una gerontocrazia (ricordate i vecchi generali e colonnelli di Vader?) ma un'organizzazione militare che persino ai suoi vertici ha dei rampanti ufficiali non più che trentenni. Unico grande vecchio è il leader Snoke, autocrate che si manifesta soltanto attraverso un ologramma gigante e che mi piace pensare caratterizzato invece dalle dimensioni di Yoda. Anche questo un valido aggiornamento e una rottura di stereotipi.

– I personaggi, escluso Kylo Ren (di cui dirò sotto), sono interessanti, ben caratterizzati, ben recitati. L'accento posto programmaticamente su quelli femminili è decisamente un'ottima scelta: da Rey a Leia a Maz Kanata (trasposizione dell'Edna Mode degli Incredibili) le donne sono convincenti e non stereotipate o, nell'ultimo caso, stereotipate bene. Rey è un personaggio portante e forse il migliore del film: l'immancabile potenza positiva che viene dal deserto, da umili origini. Leia non è ancora in primo piano ma sono abbastanza sicuro che si farà notare almeno in uno degli episodi successivi; a parte quando parla del figlio, è credibile e mi fa venire in mente le foto delle vecchie partigiane. Harrison Ford è un Han Solo impeccabile: contro ogni aspettativa, non mi sono quasi mai accorto che è un vecchio. Finn è stato una delle più grandi sorprese del film: grazie a lui sappiamo che gli Stormtrooper non sono più cloni ma bambini soldato, sottratti in fasce alle loro famiglie e ricondizionati. Quando, col casco sporco di sangue – in un certo senso già marchiato – FN-2187 si è distinto dalla massa dei suoi colleghi e ha reagito al condizionamento guadagnando la sua dignità di individuo-personaggio, mi sono emozionato.

CONTRO

– L'elemento in assoluto più deludente del film è il cattivo di turno, Kylo Ren: adolescente rabbioso e piagnucoloso per il suo titanismo insoddisfatto. Che quando si toglie la maschera fa rimanere increduli, perché non è deforme o ustionato, ma soltanto bruttino. Prevedibilmente, ancora sbarbatello, è diventato un pezzo grosso di Casa Pound, pardon, del Primo Ordine.
Ren affetta con la spada laser suppellettili, macchine e individui, tortura psicologicamente giovani donne e contribuisce ad olocausti interplanetari, ma i suoi genitori – in questo perfetti antiautoritari sessantottini sessantottenni – lo trattano tutt'al più come un ragazzo difficile, come se fosse solo scappato dal focolare domestico ("Riportalo a casa, Han!") come se fosse un tossichello che ha preso la via dello spaccio. Capisco le ragioni per le quali qualcuno l'apprezza o lo giustifica, ma non riesco proprio a farle mie. A livello di coerenza interna al film e alla saga mi ha dato davvero fastidio: voglio un Sith malvagio e irrecuperabile fino alla morte, non un bimbominkia che fa il cosplay del nonno fascista.

– La spada laser sembra a disposizione di tutti e le discipline della forza risultano di semplice e spontaneo apprendimento. Muovo questa obiezione con lo stesso fastidio della precedente per il parziale snaturamento di aspetti che ritenevo importanti in Star Wars. Non per questo, ovviamente, mi spingo a dire che Il risveglio della forza non è Star Wars.

– La trama, molto scarna e prevedibile. Più che altro è una carrellata di ambientazioni e di personaggi con ripresa nostalgica dei vecchi e presentazione entusiastica dei nuovi. Se però, come nelle precedenti trilogie, il secondo episodio sfrutterà personaggi ormai ben conosciuti per realizzare un'intreccio meno lineare, forse ne sarà valsa la pena.

– La musica mi sembra insoddisfacente. Williams ripesca a piene mani dai film precedenti e risuscita ancora una volta I pianeti di Holst. Mi sembra che ci sia solo qualche piccola buona idea (tipo il tema di Rey) e in ogni caso la musica è pensata come sottofondo e non si fa notare e apprezzare come nelle altre trilogie.

domenica 20 dicembre 2015

Fenomenologia della sconsideratezza

Carlo Olgiati, autore de Il metabolismo storico ; Roger Babson, fondatore di un istituto che si occupa di antigravità; Hans Hörbiger, padre della Dottrina del Ghiaccio Cosmico e ispiratore del relativo culto; Absalon Amet, orologiaio francese costruttore del Filosofo Meccanico Universale.
Questi personaggi non hanno molto in comune, nemmeno l'esistenza storica – due sono realmente esistiti, due no – tuttavia le loro brevi biografie intellettuali costituiscono, assieme a quelle di un'altra trentina di individui, il geniale volume La sinagoga degli iconoclasti, pubblicato da Adelphi nel 1972 e recentemente ristampato.



In un'epoca che sembra remotissima, nella quale – forse a ragion veduta – l'unico modo per verificare l'attendibilità di un'informazione è consultare enciclopedie cartacee, rivolgersi a un esperto o scartabellare archivi più o meno polverosi, Juan Rodolfo Wilcock provoca disorientamento con una raccolta di stralci biografici, altrettanti exempla di uomini in genere sconosciuti e dimenticati, ma comunque non più che mediocremente illustri. Sfida il buon senso del lettore a confrontarsi con la mancanza di buon senso dei suoi simili, spigolando notizie di microscopisti che essiccano esseri umani ancor vivi nella convinzione di poterli poi reidratare, di postulatori dell'identità spirituale fra luce e suono, di titolari di brevetto della prova meccanica dell'esistenza di Dio. E nessuna di queste storie, ovviamente, è del tutto credibile. Ma nessuna è del tutto assurda: la capacità della mente umana di perdersi nelle proprie fissazioni, illusioni e idiosincrasie è infatti enorme, specie – suggerisce Wilcock – in coloro che vi pervengono a partire da studi seri e riconosciuti.
E se alcuni degli scienziati rientrano a pieno titolo nello stereotipo della pazzia, gli umanisti sono perlomeno border line e altrettanto pericolosi.
Di questa fenomenologia della sconsideratezza, Wilcock è divertito recensore più che censore. Il suo sguardo ironico e bonariamente paternalistico, sembra passare in rassegna con sussiegoso contegno, da «Avanti il prossimo», gli improbabili personaggi che scova, inventa o reinventa. Ma a guardar meglio si capisce quanto fascino possono esercitare coloro che hanno una forte, individuata motivazione, per quanto dissennata, su chi, come l'autore, è portato all'onnivorismo intellettuale, alla divagazione e alla dispersione. D'altronde vi è anche una base comune: tanto Wilcock quanto i suoi personaggi fanno parte di quel consesso di individui (sinagoga) che distruggono le comuni immagini (iconoclasti) della realtà.
E in questo binomio di critica e di laissez-faire sta il piacere della narrativa di Wilcock, che dissacra facendo spallucce e polemizza con distacco – se non con approvazione. A livello stilistico, Wilcock gioca con l'aforisma, il citazionismo, l'accumulo di sostantivi, lo straniamento, e con tutte le sfumature della pertinenza del discorso. Come l'Italo Calvino negli stessi anni, fa il verso postmoderno – irriverente lode – all'enciclopedismo illuminista. Favolosi sono alcuni degli incipit, così come alcuni brani in cui la capacità di invenzione è eccezionale. Non posso che riportarli per farli apprezzare appieno.

“Absalon Amet, orologiaio alla Rochelle, può dirsi in un certo senso il precursore occulto di una parte non trascurabile di ciò che poi si sarebbe chiamato la filosofia moderna – forse di tutta la filosofia moderna – e più precisamente di quel vasto settore di indagine a scopo voluttuario o decorativo consistente nel casuale accostamento di vocaboli che nell'uso corrente raramente vanno accostati, con susseguente deduzione di senso o dei sensi che eventualmente si possano ricavare dall'insieme; per esempio: «La Storia è il moto del nulla verso il tempo», oppure «del tempo verso il nulla»; «Il flauto è dialettico», e combinazioni simili. Uomo del Settecento, uomo di ingegno, Amet non pretese mai né la satira né la conoscenza; uomo di meccanismi, altro non volle mostrare che un meccanismo. Nel quale si celava minaccioso – ma lui non lo sapeva – un brulicante avvenire di turpi professori di semiotica, di brillanti poeti di avanguardia”.

"L'inversione del tempo porta quasi fatalmente a una specie di determinismo: se il sogno di ciò che chiamiamo passato è un sogno veritiero, molto di quello che accadrà è saputo: usciranno dalle ventitré ferite di un cadavere nel foro di Pompeo le spade di noti congiurati, e parlando latino alla rovescia converseranno il morto e Cicerone. Altri fatti accadranno ancora più determinati: poiché ora esistono le tragedie di Shakespeare, un giorno a Londra un uomo sempre più ignoto dovrà abolirle una per una, dalla fine all'inizio, con la penna; dopo di che il teatro sarà un'arte diversa, molto più povera. /[...] Il destino ultimo dell'uomo è la perfezione primigenia, il balbettio ebete e aurorale della creazione".

“Gli utopisti non badano ai mezzi; pur di rendere felice l'uomo sono pronti a ucciderlo, torturarlo, incinerarlo, esiliarlo, sterilizzarlo, squartarlo, lobotomizzarlo, elettrizzarlo, mandarlo in guerra, bombardarlo, eccetera: dipende dal piano. Conforta pensare che anche senza piano gli uomini sono e saranno sempre pronti a uccidere, torturare, incinerare, esiliare, sterilizzare, squartare, bombardare, eccettera”

giovedì 3 dicembre 2015

Cinquanta sfumature di nephilim

Immaginate un romanzo che descriva un impero così vasto e potente da espandersi attraverso le dimensioni del tempo e del possibile. Un Impero Connettivo, coi suoi postumani e il suo autocrate alieno, Totka_II, il cui Stato – entità politica e mistica all'apparenza inarrestabile e in grado di trascendere le leggi della fisica così come le conosciamo – si scontra nientemeno che con la raffinata civiltà bizantina, con l'Impero Romano d'Oriente in uno dei momenti di suo massimo slancio e splendore: il tempo dell'imperatore Giustiniano I, della consorte Teodora e del generale Belisario.


 Da questi "semplici" esseri umani l'Impero Connettivo rischia di venir travolto. Perché se il grido di battaglia dell'esercito dei postumani è «Siamo connessi!», Belisario e le sue armate sono persino più connessi: combattono infatti per un progetto politico visionario e condiviso che per poco non riesce ad imporre la sua assurda necessità storica a un essere semidivino che non contempla necessità alcuna, ma solo probabilità. Ma l'Imperatore Totka_II, appartenente all'antica razza dei nephilim, ha il potere di richiamare a sé i demoni sumeri suoi antenati, di proiettare la sua volontà sull'esistente e di modificarlo, annullarlo, ricrearlo...

Immaginate che l'autore di questo romanzo voglia affrontare una molteplicita di tematiche importanti e attuali, fantascientifiche e non. Tra queste vi sono il potere spirituale e temporale, la violenza e la sopraffazione, realtà culturali presentate come un meme appositamente innestato nell'umanità dai suoi antichi dèi e padroni. Immaginate che a questa forma di potere-possesso, maschile e patriarcale, corrisponda simbolicamente un potere sessuale che si manifesta come possesso fisico e mistico della controparte femminile. Anche se, o meglio tanto più se il soggetto di questo potere è l'essere semidivino di cui sopra che, come i reggitori dei pantheon degli antichi greci e romani, è preda di un desiderio bruciante per una mortale.

Immaginate di perdonare (a meno che non le apprezziate) le fissazioni alieniste alla Zecharia Sitchin presenti nell'opera, perché sono equilibrate da riferimenti diretti a studiosi seri, e perché lo scrittore riesce quasi sempre a farle passare per un'interessante speculazione antropologica.
Immaginate infine che questo romanzo ambizioso, studiato, potenzialmente valido a livello di contenuti, sia del tutto inadeguato dal punto di vista della forma. Che tutto ciò che c'è di buono sia sepolto sotto una montagna di parole ostentatamente difficili, pretenziose, superflue, ridondanti, qualche volta persino goffe o scorrette. Involontariamente ridicole.

Immaginate tutto questo e vi sentirete come me durante e dopo la lettura de L'impero restaurato di Sandro Battisti, vincitore (a parimerito con Bloodbuster di Francesco Verso), del Premio Urania 2014, volume 1624, nelle edicole fino a qualche giorno fa.
Dall'incipit all'explicit, il romanzo è scritto con uno stile francamente deludente. Sembra ci siano solo le grandi idee della trama e manchino quelle piccole idee che rendono la narrazione gustosa e vivace: quelle metafore, quelle figure di vario tipo, quelle descrizioni o approfondimenti psicologici ben scritti che gli autori probabilmente concepiscono mentre fanno tutt'altro e di cui prendono nota con carta e penna, o virtualmente.
La densità di espressioni infelici o scorrette è disarmante. Solo nella prima pagina si legge di nuvole che "si attaccano allo sguardo come colla" e del rito d'un aruspice in cui il silenzio è "colonna sonora del momento". Senza che vi sia una focalizzazione che possa giustificare questo tipo di scelte. Non mancano poi, nel corso del romanzo, modi ed espressioni provenienti dall'insopportabile gergo dei professionisti: quell'antilingua dei meeting o dei panel aziendali: tipo 'piuttosto che' usato come disgiuntivo o, ancora, 'approcciabile'. Mancano solo 'impattare' e 'stressare' in luogo di 'sottolineare' e siamo pronti per il consiglio d'amministrazione.

Al secondo posto tra le cose che fanno inorridire il lettore (o almeno fanno inorridire me) ci sono quelle creazioni e relazioni sintagmatiche di natura tecnico-scientifico-semiologico-filosofico-mistico-informazionale di cui ho dato il presente modesto esempio e che – ammetto la mia ignoranza – non so se attribuire alla poetica connettivista o al solo Battisti. A cui comunque lascio la parola. «Continuum siderali»; «significanze cosmiche»; «intensità onomatopeiche»; «rumore di fondo del collasso quantico»; «simulazione craniale proveniente dalla sua mente surdimensionata»; «melma dimensionale da cui non riusciva a divincolarsi. / — Can you hear me, major Tom?».
Ora, è vero che un'espressione estrapolata dal contesto può sembrare a priori infelice e illeggibile. Ma il contesto, in questi casi, somiglia tanto, troppo al testo, e le cose di cui sopra suonano assolutamente arbitrarie e un po' cialtrone, come la canzone di Uforobot: "mangia libri di cibernetica / insalate di matematica / a giocar su Marte va".
Riconosco che il gergo specialistico, anche inventato, può legittimamente far parte del cyberpunk e del cybergoth in cui l'autore si colloca. Ma Battisti esagera davvero con la proposta straniante di sostantivi e sintagmi astratti, privi un referente che il lettore possa cogliere. Il risultato sono espressioni che risultano fatte di caratteri e di suono, non di significato.

Ma al primo posto quanto a imbarazzo per il lettore stanno gli amoreggiamenti al contempo carnali e platonici dell'imperatore Totka_II, il cui "surdimensionamento" non si limita alle facoltà mentali.

«Le immagini di Teodora facevano ancora capolino nella sua mente e la vestaglia connettiva che indossava, ricca di prese per la connessione informativa, scivolò sul suo bellissimo corpo da adone greco scoprendo il suo sesso generosamente grande. Il pensiero dell'imperatrice, del suo sfiorarla durante i viaggi dimensionali che lui intraprendeva e quel suo prenderla vigorosamente da dominante, tanto da stordirla e lasciarla sotto shock, gli gonfiava vieppiù la carne muliebre [sic!]».

A questo e ad altri brani simili mi riferisco quando, poco sopra, parlo di immagini
involontariamente ridicole. Perché se fossero volontariamente ridicole, il romanzo non dovrebbe prendersi così sul serio. E invece mi viene in mente la famosa battuta, l'unica, credo, che quasi tutti hanno letto, del Mr. Grey di Cinquanta sfumature di grigio.

Non voglio essere categorico: magari sono io a non essere all'altezza del genio dell'Impero restaurato. In tal caso, vi prego, fatemelo notare, spiegatemi, e mi ritirerò con disonore nelle mie più classiche, sottodimensionate letture.