giovedì 24 dicembre 2015

Il sonno della forza genera mostri

Possiamo anche chiamarla recensione, ma è più che altro un insieme di cose che voglio dire su Star Wars Episodio VII, Il risveglio della forza. Lascio le recensioni a chi ne capisce più di me, e gli insiemi delle cose da dire a chi ne capisce altrettanto, o meno. Ovviamente non sono ottimista riguardo alla capacità di ciascuno di valutarsi...
Mettiamo subito le cose in chiaro: se per voi "Star Wars non è fantascienza" allora "Questa non è la recensione che state cercando". Perché si soffermerà su questo punto, tanto accanitamente quanto sterilmente dibattuto, giusto il tempo necessario a darvi torto.
L'appartenenza di un'opera a un genere (letterario o cinematografico) ha basi storiche e sociologiche; non è qualcosa che per capriccio o per eroica difesa della categoria possano stabilire l'ultimo degli scribacchini o il primo dei maestri indiscussi dell'estrapolazione straniante e trasformativa della società. Che SW sia soltanto un tipo di fantascienza, e che altri tipi possano piacere di più ed essere più rappresentativi e vicini all'ideale di genere, l'accetto senza problemi.
Ma rifiutare di ascrivere un'evidente Space opera al genere fantascientifico mi ricorda il comportamento di quello che, vergognandosi delle proprie origini popolari, a chi chiedesse chi fossero i suoi avi, rispondeva "l'antenato sono io". Fantascienza non è solo sinonimo di qualità, profondità, speculazione ecc. Fantascienza sono anche le astronavi, i robottoni, i laser, i pianeti che esplodono, le venusiane che corrono mezze nude. E l'evoluzione che la fantascienza ha avuto a partire dagli anni Cinquanta, prima con la social science fiction e poi con l'inner space, con Ballard, Lem, Dick, Le Guin è stata bellissima e necessaria a ridefinire il genere. Ma per un certo tempo la fantascienza è stata erede delle edisonate e dei romanzi coloniali e rispetto a quest'ultimi è stata praticamente solo un mutamento d'ambientazione per l'avventura, senza velleità estrapolative. Inoltre, anche se così non fosse, ritengo che il pubblico sia il giudice ultimo per dire se una cosa è fantascienza o meno. Anche con questo criterio, Star Wars è fantascienza e negarlo perché sperate in una fantascienza migliore mi pare, quello sì, una narrazione del tutto personale, escapista e d'evasione.


Ma veniamo al film. Mi è piaciuto molto, ma non lo ritengo un capolavoro. Negli ultimi anni, al cinema ho visto due o tre film di fantascienza migliori, come Interstellar, Cloud Atlas e anche alcuni film non di genere che mi hanno interessato e coinvolto di più. Ma, in sette giorni, Il risveglio della forza l'ho visto due volte, e tra una visione e l'altra ho letto molte opinioni e recensioni e ci ho riflettuto abbastanza anche per scrivere queste righe. E la seconda volta il film mi è piaciuto più della prima. Segno inequivocabile di una fulminante invasione memetica dell'immaginario, a cui si cede consapevolmente o volontariamente. Ho ceduto volontariamente, e penso sempre di più che buona parte del piacere di Star Wars sia il suo essere epica contemporanea, coi tratti fondanti di questo tipo di narrazione: quello contenutistico (lotta superomistica tra bene e male), quello strutturale (ripetitività di schemi e forme) e quello sociologico (aspetto 'identitario'; diffusione e riconoscibilità dell'opera; possibilità di trovare un vasto numero di persone che hanno una conoscenza approfondita). Formulo il paragone con una domanda: quanti individui nel mondo conoscono Darth Vader (così come Harry Potter o Frodo) e quanti Ulisse (così come Beowulf o Orlando)?

Ho molto da dire e temo che se non lo facessi per punti non finirei più. Mi limito a fare una lista di pro e di contro.

PRO

– Come sempre, SW è uno spettacolo per gli occhi, costantemente sgranati e stupiti di fronte alle ambientazioni, alle astronavi, ai pianeti, alle creature, persino agli elementi della cultura materiale dei personaggi. Alcuni più di altri. E in questo episodio a colpirmi è stato soprattutto lo sguardo archeologico, a strati, rivolto alle vestigia che le civiltà lasciano nel loro fiorire e declinare: la protagonista che prima di iniziare la sua avventura abita in un Camminatore AT-AT e che poi fa volare il Millennium Falcon all'interno del relitto di uno Star Destroyer semicoperto dalla sabbia; quella sorta di palazzotto a guglie trasformato in un pub o una cantina sociale sul pianeta di Maz Kanata; il fatto stesso che Luke Skywalker sia impegnato alla ricerca del primo tempio Jedi.

– Sempre per quel che riguarda l'aspetto visivo, ho apprezzato i combattimenti. Non sono un conoscitore, ma mi sembrano più realistici rispetto alla seconda trilogia: nella galassia repubblicana il combattimento con la spada laser è una disciplina marziale, un'arte, quasi una danza. Poi negli episodi IV, V e VI, la disciplina degenera (mi rendo conto che è anche perché gli episodi sono precedenti) e si fa meno elaborata. In questo episodio VII anche la spada laser diventa uno strumento di sopravvivenza. Non "wow, una spada laser", ma quasi un'arma con cui combattere in mancanza di altro, come avviene per Finn. Mi pare un'evoluzione credibile.

– Novità rispetto alle trilogie precedenti: il citazionismo. Non solo dei film pregressi, ma anche di elementi riconoscibili della storia del cinema o della storia tout court. Mi vengono in mente la scena degli elicotteri al tramonto in Apocalypse now, riproposta con i Caccia TIE, e i raduni nazisti di Norimberga rievocati dalle masse ordinate di Stormtrooper, dal tono del despota di turno e dal rosso vivo degli stendardi.

– L'istituzione malvagia di turno, il Primo Ordine, un misto tra il Nuovo Ordine Mondiale e l'efficientismo nazista contaminato da un pensiero mistico-magico (di modo che i Sith possano farne parte). Sorta dalle recenti ceneri dell'impero, non è una gerontocrazia (ricordate i vecchi generali e colonnelli di Vader?) ma un'organizzazione militare che persino ai suoi vertici ha dei rampanti ufficiali non più che trentenni. Unico grande vecchio è il leader Snoke, autocrate che si manifesta soltanto attraverso un ologramma gigante e che mi piace pensare caratterizzato invece dalle dimensioni di Yoda. Anche questo un valido aggiornamento e una rottura di stereotipi.

– I personaggi, escluso Kylo Ren (di cui dirò sotto), sono interessanti, ben caratterizzati, ben recitati. L'accento posto programmaticamente su quelli femminili è decisamente un'ottima scelta: da Rey a Leia a Maz Kanata (trasposizione dell'Edna Mode degli Incredibili) le donne sono convincenti e non stereotipate o, nell'ultimo caso, stereotipate bene. Rey è un personaggio portante e forse il migliore del film: l'immancabile potenza positiva che viene dal deserto, da umili origini. Leia non è ancora in primo piano ma sono abbastanza sicuro che si farà notare almeno in uno degli episodi successivi; a parte quando parla del figlio, è credibile e mi fa venire in mente le foto delle vecchie partigiane. Harrison Ford è un Han Solo impeccabile: contro ogni aspettativa, non mi sono quasi mai accorto che è un vecchio. Finn è stato una delle più grandi sorprese del film: grazie a lui sappiamo che gli Stormtrooper non sono più cloni ma bambini soldato, sottratti in fasce alle loro famiglie e ricondizionati. Quando, col casco sporco di sangue – in un certo senso già marchiato – FN-2187 si è distinto dalla massa dei suoi colleghi e ha reagito al condizionamento guadagnando la sua dignità di individuo-personaggio, mi sono emozionato.

CONTRO

– L'elemento in assoluto più deludente del film è il cattivo di turno, Kylo Ren: adolescente rabbioso e piagnucoloso per il suo titanismo insoddisfatto. Che quando si toglie la maschera fa rimanere increduli, perché non è deforme o ustionato, ma soltanto bruttino. Prevedibilmente, ancora sbarbatello, è diventato un pezzo grosso di Casa Pound, pardon, del Primo Ordine.
Ren affetta con la spada laser suppellettili, macchine e individui, tortura psicologicamente giovani donne e contribuisce ad olocausti interplanetari, ma i suoi genitori – in questo perfetti antiautoritari sessantottini sessantottenni – lo trattano tutt'al più come un ragazzo difficile, come se fosse solo scappato dal focolare domestico ("Riportalo a casa, Han!") come se fosse un tossichello che ha preso la via dello spaccio. Capisco le ragioni per le quali qualcuno l'apprezza o lo giustifica, ma non riesco proprio a farle mie. A livello di coerenza interna al film e alla saga mi ha dato davvero fastidio: voglio un Sith malvagio e irrecuperabile fino alla morte, non un bimbominkia che fa il cosplay del nonno fascista.

– La spada laser sembra a disposizione di tutti e le discipline della forza risultano di semplice e spontaneo apprendimento. Muovo questa obiezione con lo stesso fastidio della precedente per il parziale snaturamento di aspetti che ritenevo importanti in Star Wars. Non per questo, ovviamente, mi spingo a dire che Il risveglio della forza non è Star Wars.

– La trama, molto scarna e prevedibile. Più che altro è una carrellata di ambientazioni e di personaggi con ripresa nostalgica dei vecchi e presentazione entusiastica dei nuovi. Se però, come nelle precedenti trilogie, il secondo episodio sfrutterà personaggi ormai ben conosciuti per realizzare un'intreccio meno lineare, forse ne sarà valsa la pena.

– La musica mi sembra insoddisfacente. Williams ripesca a piene mani dai film precedenti e risuscita ancora una volta I pianeti di Holst. Mi sembra che ci sia solo qualche piccola buona idea (tipo il tema di Rey) e in ogni caso la musica è pensata come sottofondo e non si fa notare e apprezzare come nelle altre trilogie.

domenica 20 dicembre 2015

Fenomenologia della sconsideratezza

Carlo Olgiati, autore de Il metabolismo storico ; Roger Babson, fondatore di un istituto che si occupa di antigravità; Hans Hörbiger, padre della Dottrina del Ghiaccio Cosmico e ispiratore del relativo culto; Absalon Amet, orologiaio francese costruttore del Filosofo Meccanico Universale.
Questi personaggi non hanno molto in comune, nemmeno l'esistenza storica – due sono realmente esistiti, due no – tuttavia le loro brevi biografie intellettuali costituiscono, assieme a quelle di un'altra trentina di individui, il geniale volume La sinagoga degli iconoclasti, pubblicato da Adelphi nel 1972 e recentemente ristampato.



In un'epoca che sembra remotissima, nella quale – forse a ragion veduta – l'unico modo per verificare l'attendibilità di un'informazione è consultare enciclopedie cartacee, rivolgersi a un esperto o scartabellare archivi più o meno polverosi, Juan Rodolfo Wilcock provoca disorientamento con una raccolta di stralci biografici, altrettanti exempla di uomini in genere sconosciuti e dimenticati, ma comunque non più che mediocremente illustri. Sfida il buon senso del lettore a confrontarsi con la mancanza di buon senso dei suoi simili, spigolando notizie di microscopisti che essiccano esseri umani ancor vivi nella convinzione di poterli poi reidratare, di postulatori dell'identità spirituale fra luce e suono, di titolari di brevetto della prova meccanica dell'esistenza di Dio. E nessuna di queste storie, ovviamente, è del tutto credibile. Ma nessuna è del tutto assurda: la capacità della mente umana di perdersi nelle proprie fissazioni, illusioni e idiosincrasie è infatti enorme, specie – suggerisce Wilcock – in coloro che vi pervengono a partire da studi seri e riconosciuti.
E se alcuni degli scienziati rientrano a pieno titolo nello stereotipo della pazzia, gli umanisti sono perlomeno border line e altrettanto pericolosi.
Di questa fenomenologia della sconsideratezza, Wilcock è divertito recensore più che censore. Il suo sguardo ironico e bonariamente paternalistico, sembra passare in rassegna con sussiegoso contegno, da «Avanti il prossimo», gli improbabili personaggi che scova, inventa o reinventa. Ma a guardar meglio si capisce quanto fascino possono esercitare coloro che hanno una forte, individuata motivazione, per quanto dissennata, su chi, come l'autore, è portato all'onnivorismo intellettuale, alla divagazione e alla dispersione. D'altronde vi è anche una base comune: tanto Wilcock quanto i suoi personaggi fanno parte di quel consesso di individui (sinagoga) che distruggono le comuni immagini (iconoclasti) della realtà.
E in questo binomio di critica e di laissez-faire sta il piacere della narrativa di Wilcock, che dissacra facendo spallucce e polemizza con distacco – se non con approvazione. A livello stilistico, Wilcock gioca con l'aforisma, il citazionismo, l'accumulo di sostantivi, lo straniamento, e con tutte le sfumature della pertinenza del discorso. Come l'Italo Calvino negli stessi anni, fa il verso postmoderno – irriverente lode – all'enciclopedismo illuminista. Favolosi sono alcuni degli incipit, così come alcuni brani in cui la capacità di invenzione è eccezionale. Non posso che riportarli per farli apprezzare appieno.

“Absalon Amet, orologiaio alla Rochelle, può dirsi in un certo senso il precursore occulto di una parte non trascurabile di ciò che poi si sarebbe chiamato la filosofia moderna – forse di tutta la filosofia moderna – e più precisamente di quel vasto settore di indagine a scopo voluttuario o decorativo consistente nel casuale accostamento di vocaboli che nell'uso corrente raramente vanno accostati, con susseguente deduzione di senso o dei sensi che eventualmente si possano ricavare dall'insieme; per esempio: «La Storia è il moto del nulla verso il tempo», oppure «del tempo verso il nulla»; «Il flauto è dialettico», e combinazioni simili. Uomo del Settecento, uomo di ingegno, Amet non pretese mai né la satira né la conoscenza; uomo di meccanismi, altro non volle mostrare che un meccanismo. Nel quale si celava minaccioso – ma lui non lo sapeva – un brulicante avvenire di turpi professori di semiotica, di brillanti poeti di avanguardia”.

"L'inversione del tempo porta quasi fatalmente a una specie di determinismo: se il sogno di ciò che chiamiamo passato è un sogno veritiero, molto di quello che accadrà è saputo: usciranno dalle ventitré ferite di un cadavere nel foro di Pompeo le spade di noti congiurati, e parlando latino alla rovescia converseranno il morto e Cicerone. Altri fatti accadranno ancora più determinati: poiché ora esistono le tragedie di Shakespeare, un giorno a Londra un uomo sempre più ignoto dovrà abolirle una per una, dalla fine all'inizio, con la penna; dopo di che il teatro sarà un'arte diversa, molto più povera. /[...] Il destino ultimo dell'uomo è la perfezione primigenia, il balbettio ebete e aurorale della creazione".

“Gli utopisti non badano ai mezzi; pur di rendere felice l'uomo sono pronti a ucciderlo, torturarlo, incinerarlo, esiliarlo, sterilizzarlo, squartarlo, lobotomizzarlo, elettrizzarlo, mandarlo in guerra, bombardarlo, eccetera: dipende dal piano. Conforta pensare che anche senza piano gli uomini sono e saranno sempre pronti a uccidere, torturare, incinerare, esiliare, sterilizzare, squartare, bombardare, eccettera”

giovedì 3 dicembre 2015

Cinquanta sfumature di nephilim

Immaginate un romanzo che descriva un impero così vasto e potente da espandersi attraverso le dimensioni del tempo e del possibile. Un Impero Connettivo, coi suoi postumani e il suo autocrate alieno, Totka_II, il cui Stato – entità politica e mistica all'apparenza inarrestabile e in grado di trascendere le leggi della fisica così come le conosciamo – si scontra nientemeno che con la raffinata civiltà bizantina, con l'Impero Romano d'Oriente in uno dei momenti di suo massimo slancio e splendore: il tempo dell'imperatore Giustiniano I, della consorte Teodora e del generale Belisario.


 Da questi "semplici" esseri umani l'Impero Connettivo rischia di venir travolto. Perché se il grido di battaglia dell'esercito dei postumani è «Siamo connessi!», Belisario e le sue armate sono persino più connessi: combattono infatti per un progetto politico visionario e condiviso che per poco non riesce ad imporre la sua assurda necessità storica a un essere semidivino che non contempla necessità alcuna, ma solo probabilità. Ma l'Imperatore Totka_II, appartenente all'antica razza dei nephilim, ha il potere di richiamare a sé i demoni sumeri suoi antenati, di proiettare la sua volontà sull'esistente e di modificarlo, annullarlo, ricrearlo...

Immaginate che l'autore di questo romanzo voglia affrontare una molteplicita di tematiche importanti e attuali, fantascientifiche e non. Tra queste vi sono il potere spirituale e temporale, la violenza e la sopraffazione, realtà culturali presentate come un meme appositamente innestato nell'umanità dai suoi antichi dèi e padroni. Immaginate che a questa forma di potere-possesso, maschile e patriarcale, corrisponda simbolicamente un potere sessuale che si manifesta come possesso fisico e mistico della controparte femminile. Anche se, o meglio tanto più se il soggetto di questo potere è l'essere semidivino di cui sopra che, come i reggitori dei pantheon degli antichi greci e romani, è preda di un desiderio bruciante per una mortale.

Immaginate di perdonare (a meno che non le apprezziate) le fissazioni alieniste alla Zecharia Sitchin presenti nell'opera, perché sono equilibrate da riferimenti diretti a studiosi seri, e perché lo scrittore riesce quasi sempre a farle passare per un'interessante speculazione antropologica.
Immaginate infine che questo romanzo ambizioso, studiato, potenzialmente valido a livello di contenuti, sia del tutto inadeguato dal punto di vista della forma. Che tutto ciò che c'è di buono sia sepolto sotto una montagna di parole ostentatamente difficili, pretenziose, superflue, ridondanti, qualche volta persino goffe o scorrette. Involontariamente ridicole.

Immaginate tutto questo e vi sentirete come me durante e dopo la lettura de L'impero restaurato di Sandro Battisti, vincitore (a parimerito con Bloodbuster di Francesco Verso), del Premio Urania 2014, volume 1624, nelle edicole fino a qualche giorno fa.
Dall'incipit all'explicit, il romanzo è scritto con uno stile francamente deludente. Sembra ci siano solo le grandi idee della trama e manchino quelle piccole idee che rendono la narrazione gustosa e vivace: quelle metafore, quelle figure di vario tipo, quelle descrizioni o approfondimenti psicologici ben scritti che gli autori probabilmente concepiscono mentre fanno tutt'altro e di cui prendono nota con carta e penna, o virtualmente.
La densità di espressioni infelici o scorrette è disarmante. Solo nella prima pagina si legge di nuvole che "si attaccano allo sguardo come colla" e del rito d'un aruspice in cui il silenzio è "colonna sonora del momento". Senza che vi sia una focalizzazione che possa giustificare questo tipo di scelte. Non mancano poi, nel corso del romanzo, modi ed espressioni provenienti dall'insopportabile gergo dei professionisti: quell'antilingua dei meeting o dei panel aziendali: tipo 'piuttosto che' usato come disgiuntivo o, ancora, 'approcciabile'. Mancano solo 'impattare' e 'stressare' in luogo di 'sottolineare' e siamo pronti per il consiglio d'amministrazione.

Al secondo posto tra le cose che fanno inorridire il lettore (o almeno fanno inorridire me) ci sono quelle creazioni e relazioni sintagmatiche di natura tecnico-scientifico-semiologico-filosofico-mistico-informazionale di cui ho dato il presente modesto esempio e che – ammetto la mia ignoranza – non so se attribuire alla poetica connettivista o al solo Battisti. A cui comunque lascio la parola. «Continuum siderali»; «significanze cosmiche»; «intensità onomatopeiche»; «rumore di fondo del collasso quantico»; «simulazione craniale proveniente dalla sua mente surdimensionata»; «melma dimensionale da cui non riusciva a divincolarsi. / — Can you hear me, major Tom?».
Ora, è vero che un'espressione estrapolata dal contesto può sembrare a priori infelice e illeggibile. Ma il contesto, in questi casi, somiglia tanto, troppo al testo, e le cose di cui sopra suonano assolutamente arbitrarie e un po' cialtrone, come la canzone di Uforobot: "mangia libri di cibernetica / insalate di matematica / a giocar su Marte va".
Riconosco che il gergo specialistico, anche inventato, può legittimamente far parte del cyberpunk e del cybergoth in cui l'autore si colloca. Ma Battisti esagera davvero con la proposta straniante di sostantivi e sintagmi astratti, privi un referente che il lettore possa cogliere. Il risultato sono espressioni che risultano fatte di caratteri e di suono, non di significato.

Ma al primo posto quanto a imbarazzo per il lettore stanno gli amoreggiamenti al contempo carnali e platonici dell'imperatore Totka_II, il cui "surdimensionamento" non si limita alle facoltà mentali.

«Le immagini di Teodora facevano ancora capolino nella sua mente e la vestaglia connettiva che indossava, ricca di prese per la connessione informativa, scivolò sul suo bellissimo corpo da adone greco scoprendo il suo sesso generosamente grande. Il pensiero dell'imperatrice, del suo sfiorarla durante i viaggi dimensionali che lui intraprendeva e quel suo prenderla vigorosamente da dominante, tanto da stordirla e lasciarla sotto shock, gli gonfiava vieppiù la carne muliebre [sic!]».

A questo e ad altri brani simili mi riferisco quando, poco sopra, parlo di immagini
involontariamente ridicole. Perché se fossero volontariamente ridicole, il romanzo non dovrebbe prendersi così sul serio. E invece mi viene in mente la famosa battuta, l'unica, credo, che quasi tutti hanno letto, del Mr. Grey di Cinquanta sfumature di grigio.

Non voglio essere categorico: magari sono io a non essere all'altezza del genio dell'Impero restaurato. In tal caso, vi prego, fatemelo notare, spiegatemi, e mi ritirerò con disonore nelle mie più classiche, sottodimensionate letture.

domenica 15 novembre 2015

Menu del giorno

Se avesse avuto qualcosa di simile agli occhi, Frehietyx avrebbe rivolto a Grlotodmav uno sguardo perplesso. E se avesse potuto esprimersi a parole, avrebbe detto: «Grlò, sei sicuro? Dopo i fatti di Parigi, un'altra strage così. Non rischiamo di esagerare?».
L'amministratore delegato arricciò il naso, impettito. Non fece neanche un cenno d'assenso. Premette un tasto con stizza, facendo sparire dallo schermo l'Europa occidentale. Ora il display mostrava l'Africa subsahariana. Guardò con aria beffarda il capo del personale e il responsabile del marketing.
«No, beh, forse qui il ricavato sarebbe un po' misero...» suggerì Bityumannesharak.
«Ma dai, davvero?» scandì Grlotodmav, sfoggiando un sorriso paternalistico e commiserevole.
«Che ne dici del Medio Oriente?» propose Freheityx. La mappa del mondo scivolò su una vasta regione desertica, fino ad arrivare sulla cupola dorata d'una moschea azzurrina.
«Gerusalemme?»
«Macché, torna qui di default da millenni e non riesco a modificarlo. Tu hai qualche idea?»
«Libano? La gente sa dov'è, ma è un po' che non se ne sente parlare»
«Bit? Che dici del Libano?»
«In genere è di terza classe, insomma profilo medio-basso. Non frega a molti. Mettendo da parte i familiari e i testimoni, e in secondo luogo i Libanesi, ovviamente. Però dopo Parigi, sui social dovrebbe fare un po' presa. Indignazione di certo: per un consumatore meno esigente. Ma anche frustrazione, senso di colpa.»
«Senso di colpa per cosa?»
«Ma per non riuscire a commuoversi quanto Parigi!»
«Bella questa. Mica roba da discount! Dove esattamente?»
«Un quartiere normale. Boh.»
«Un mercato»
«Sì, eccellente. Quel senso di quotidianità violata, il sangue sui rotoli di stoffa, i cadaveri riversi sulle ceste di frutta secca...». Grlotodmav aveva deciso che la riunione era finita. Raccolse le sue cose e avviò lo spegnimento dell'elaboratore.
«Isis?» chiese il capo del personale.
«Chi altro?» disse l'AD, facendo già per uscire.
«Guarda che prima o poi quelli ce li piallano»
Grlotodmav fece spallucce. «Sicuro. E noi battiamo il ferro finché è caldo. Ora non rompetemi i coglioni, ho un appuntamento!»
«La porti da Chez Trihobkatlò
«Certo! - concluse, infilando il soprabito - Cucina francese!»
«Bravo, bravo. Mi occupo io di informare gli Instillatori. Grazie di avermelo chiesto eh!»

***

«E per finire, crema di terrore purissimo, di giornata ovviamente, su un croccante di cinismo e di odio razziale. Il tutto accompagnato da un Senso di sconfitta, Paris, giugno 1940.»
Grihivinsixia annuì, cortese, al cameriere in livrea, poi sorrise al suo accompagnatore ostentando ammirazione. Grlotodmav era già insofferente. Perché le portava in questi ristoranti carissimi, se poi non capivano un cazzo?

lunedì 9 novembre 2015

I ❤ spiegoni (di alcuni film del S+F che bisogna assolutamente vedere)

"Inutile dirti quanto sono stucchevoli le preterizioni" - potrei puntualizzare citando Umberto Eco. Ma preferisco di no. Perché è naturale, per chi tenti di illustrare la varietà e la qualità delle proposte del Trieste Scienceplusfiction Festival, dichiararsi sconfitto in partenza. D'altra parte, dopo aver stabilito ciò, non riuscirei comunque a trattenermi dal fare un elenco tendente all'esaustivo, sciorinando film e cortometraggi dei generi più disparati, i relativi numerosi premi (Méliès d'or, Méliès d'argent, premio Asteroide...) le mostre (Franco Brambilla mondonoviano, retrogaming...), gli incontri di futurologia (con scienziati, scrittori, disegnatori...), le feste notturne, le attività per bambini, le file spontaneamente bustrofediche e così ordinate da porre simbolico suggello al respiro internazionale della kermesse

 Il manifesto di quest'anno, di Mario Alberti


Dopo un'esperienza di partecipazione pluriennale (in qualche caso anche nello staff), ho capito di amare follemente i cortometraggi, forse perché, come i racconti brevi in letteratura, colgono uno degli aspetti della fantascienza e in generale del fantastico che preferisco: quello di avere "l'idea" come eroe, come protagonista. Ma certamente anche perché io sono uno spettatore capriccioso che si stufa facilmente e vuole sempre vedere contenuti e stili nuovi in un susseguirsi a perdifiato. O forse perché dinanzi a certe pellicole di centodieci minuti vorrei prendere il regista o il produttore per il bavero e gridargli, coi lucciconi agli occhi, "potevi fare un corto perfetto! perché, perché hai voluto fare un film inutile?!".

Di quasi una trentina di corti che ho potuto vedere, almeno una decina erano veramente memorabili. E oltre a The Kármán Line (vincitore del Méliès d'argent nonché premio del pubblico, poeticissimamente allegorico), segnalo The Shaman (un science-fantasy che unisce tecnologie belliche futuristiche e trance sciamanica musicalmente indotta), The Nostalgist (che mi ha fatto pensare a uno scrittore Premio Urania che apprezzo molto e che agghinda con abiti secenteschi un futuro altrimenti indecente e intollerabile) e Ghost Train (in stile Bradbury non fantascientifico, con bambini inquietanti e inquietati in contesto "scary luna park").

 The Karman Line, cortometraggio premiato dal pubblico



La passione per i corti forse mi ha distolto un po' dai lungometraggi, ma non tanto da impedirmi di vederne una dozzina. E a mio avviso (ma ho scoperto di non essere il solo a pensarla così) le sorprese di quest'anno sono documentaristiche. Per vero, ma soprattutto per finta.

Come documentario "vero" (acconsentiamo per un momento che una qualsiasi narrazione possa esser tale) ho apprezzato Dark Star - L'universo di HR Giger. Vista la levatura del protagonista e la natura delle di lui opere, non credo che la regista abbia dovuto giocare le sue carte migliori per rendere questo documentario affascinante e disturbante. Il disegnatore svizzero, famoso per gli effetti speciali di Alien e scomparso poco prima di veder concluso il documentario, vive in una casa circondata da una vegetazione tipo Bosco Atro; in giardino ha un trenino che si trascina su rotaie arrugginite arrancando attraverso un percorso che simboleggia la vita intrauterina e il trauma della nascita. In casa non ci sono pareti o mobili privi dei suoi disegni in scale di grigio, opere che evocano paure profonde, relative alla morte, al sesso, alla natura del male. Giger stesso - devo dirlo a costo di essere politicamente scorretto - è inquietante; e il fatto che serva ai suoi ospiti il tè coi pasticcini non dissolve questa impressione, anzi.

 
H.R. Giger nella sua sobria sala da pranzo



Le altre due pellicole, No Man Beyond This Point e What We Do in the Shadows sono mockumentary, falsi documentari.

Il primo è, a mio avviso, un perfetto esempio di fantascienza sociologica intelligentemente unita a un'ambientazione ucronica e, appunto, alla forma documentaristica. La narrazione procede su due binari: quello storico illustra, attraverso testimonianze e interventi di studiose, gli eventi e le circostanze che a partire dal 1953 hanno portato il mondo attuale ad essere abitato quasi soltanto da donne. A questa esposizione si alterna una sorta di "mockudrama", che racconta la vita e le vicende personali del trentasettenne Andrew Mayers, l'uomo più giovane del pianeta, collaboratore domestico della famiglia di Iris e Terra. Leggero e dinamico, pieno di trovate divertenti e credibili, il film sfrutta appieno le potenzialità documentaristiche, illustrando la ricchezza di dettagli dell'ipotesi controfattuale e del suo svolgimento, ma evitando allo stesso tempo l'intollerabile arbitrarietà degli "spiegoni" tipici delle narrazioni (letterarie o cinematografiche) che hanno tante buone idee e poche occasioni credibili di farne un resoconto. Qui lo spiegone fa parte del gioco, è ricercato, e quanto più è dettagliato, complesso, tanto più risulta apprezzabile. Chi ha presentato il film in sala si domandava se fosse un'utopia femminista o una distopia maschilista. Nessuna delle due: è una distopia tout court. Ma la struttura dell'opera punta a mostrare come questa situazione sia data dall'azione combinata di un ribaltamento sull'asse del genere accentuato da un'estrapolazione iperbolica. Un caso di straniamento tipico della fantascienza, che consente di guardare dal di fuori il proprio mondo empirico proprio grazie al suo doppio deformato. Di rendersi conto degli elementi distopici della società attuale, in cui le donne sono ancora emarginate lavorativamente e poco rappresentate nei luoghi in cui si prendono le decisioni. Ovviamente la "morale della favola" era chiara sin dall'inizio, ma la qualità tecnica, i risvolti della trama, la capacità di evitare il tono didascalico hanno reso perfettamente godibile quella che rischiava di essere una "favola con la morale". Da appassionato di fantascienza innanzitutto letteraria non posso che concludere citando lo stupendo racconto di Catherine L. Moore, Greter than Gods, del 1939, al centro del quale c'è un point of divergence che ha da un lato un mondo tutto al femminile (alle cui caratteristiche avrebbe potuto tendere anche quello del documentario), dall'altro un mondo tutto al maschile.




Il secondo falso documentario, lungometraggio più votato dal pubblico del S+F e vincitore del premio per la miglior sceneggiatura al Torino Film Festival, è più simile a una sitcom. Vi si descrivono le vicende e la difficile convivenza di Viago, Vladislav, Deacon e Petyr, vampiri provenienti da epoche disparate e tra loro diversissimi che abitano sotto lo stesso tetto in una villa di Wellington in Nuova Zelanda. Il dandy Viago è sinceramente innamorato di una donna novantenne, non vuole bere da bicchieri sporchi, tratta bene le sue vittime e mette gli asciugamani sul divano prima di assaltarle, per non sporcare. Deacon, poco di buono, collerico, non vuole lavare i piatti e cerca sempre la rissa coi licantropi. Vladislav, signore feudale in stile transilvano, un tempo maestro di torture, ipnosi e metamorfosi, ha perso gran parte dei suoi poteri a causa di un temibile avversario soprannominato La Bestia. Poco si sa, infine, di Petyr, plurimillenario di parvenze nosferatesche, se non che vive ancora in una bara di pietra e che la sua inquietante silhouette appariva già nell'arte egizia.
What We Do in the Shadows è un film eccellente, geniale, in cui si ride molto, ma di un riso che poi si scopre essere ghigno. Perché le situazioni sono - usiamo questo termine quando è corretto - kafkiane, ovvero assurde e grottesche ma presentate con la massima naturalità e neutralità. E anche qui la forma documentaristica aiuta molto: sapere che dietro alla telecamera c'è qualcuno disposto a sospendere l'incredulità, il giudizio e la paura consente allo spettatore di fare lo stesso, entrando nell'orrenda, sanguinaria ma allo stesso tempo banale, monotona quotidianità delle creature della notte.

I primi sei minuti del mockumentarty vampiresco

venerdì 30 ottobre 2015

Uscir fuori di se e trovar se stessi

Quali spazi per la fantascienza nel mondo della scuola? Perché far leggere science-fiction a bambini e ragazzi? Fantascienza durante le ore di materie letterarie o nell'ambito delle discipline scientifiche?
Per rispondere a queste domande, sono stato invitato a parlare, martedì scorso, a un seminario interdisciplinare rivolto a docenti delle scuole di lingua italiana in Slovenia e Croazia.
Nelle sale di palazzo Manzioli, dimora in stile veneziano recentemente rimodernata e sede della comunità italiana di Isola d'Istria, più di cinquanta insegnanti hanno trascorso una giornata all'insegna dello straniamento. Straniamento brechtiano con Daniela Dellavalle, art-theatre counselor, che ha proposto gli esercizi del Teatro dell'Oppresso per mettersi nei panni dell'altro, svelare i pregiudizi che abbiamo sul prossimo e formulare modi di superarli. Straniamento cognitivo - mi si permetta la citazione suviniana - attraverso la fantascienza, di cui ho fornito un breve quadro storico e alcuni elementi di teoria del genere letterario, e di cui si è poi fatta esperienza diretta.

 I docenti in pausa caffè davanti a palazzo Manzioli

La fantascienza, forse più di ogni altro tipo di letteratura, va esaminata e presentata in un'ottica interdisciplinare. Per poter consentire alle cosiddette "due culture", scientifica e umanistica, di compenetrarsi, vanno innanzitutto permeabilizzate le barriere che storicamente caratterizzano queste visioni del mondo percepite ancora troppo spesso come alternative.
L'interdisciplinarietà può essere, ad un primo livello, un rapporto contenitore/contenuto, una sorta di relazione metonimica, ad esempio, tra un testo e le tematiche o le forme che presenta. Un romanzo che dedichi un discreto spazio alla descrizione della vegetazione del luogo in cui è ambientato richiede da parte dello scrittore una minima conoscenza di botanica; ma anche il lettore potrà trarre maggior soddisfazione dall'opera se saprà qualcosa di piante o sarà disposto ad informarsi. Viceversa, in un testo scientifico (specialistico, ma ancor più divulgativo), l'autore, al fine di veicolare meglio il contenuto, potrà fare uso di strumenti letterari: figure retoriche, topoi, strutture e forme della narrativa.
Mi pare che in questi due primi casi le barriere vengano meno solo in parte. Certo la prospettiva dell'inclusione è già un passo avanti, ma una vera integrazione, una messa a sistema delle conoscenze, richiede - per tornare alla similitudine retorica - non una metonimia ma una metafora: un trasporto (che è poi l'etimologia di 'metafora') totale di una disciplina nel campo di studi dell'altra.
Ed ecco che così, secondo alcune delle prospettive critiche e teoriche più recenti, la letteratura va presa in esame percorrendo a ritroso l'evoluzione che l'ha condotta ad essere una delle attività "dello spirito" per eccellenza. Senza soluzione di continuità si "regredisce" all'antropologia, all'etologia, al linguaggio come elemento a base biologica responsabile dell'ominazione, ripartendo poi dal suo sviluppo in tecniche e tecnologie (narrazione, letteratura, arte) come specializzazione dell'homo sapiens, specializzazione che può essere, e che auspico sia nei fatti, un vantaggio in termini di sopravvivenza. La struttura sociale di una colonia di formiche è determinata da segnali chimici. Un branco di lupi rinsalda i legami attraverso la caccia e la condivisione del cibo. Allo stesso modo la letteratura (più genericamente: una narrazione) può costituire l'umano consorzio, farlo sopravvivere all'ambiente e - nell'era geologica dell'antropocene - a se stesso, ricordandogli al contempo che l'uomo non è né formica né lupo.
Se assottigliare le barriere della letteratura significa ricondurre un'attività spirituale al suo "fondo animale", operare allo stesso modo nei confronti della scienza comporta la decostruzione di concetti base come 'teoria scientifica', 'realtà empirica' ecc. Se non bastassero allo scopo il falsificazionismo popperiano, la teoria della rivoluzione del paradigma scientifico di Kuhn (che inserisce le conoscenze scientifiche, al pari di quelle umanistiche, nel divenire storico) e altri elementi anche contenutistici e sperimentali della scienza contemporanea, si potrebbe guardare alla scienza come un'attività simbolica fortemente ritualizzata e al testo scientifico (opera di divulgazione o articolo specialistico) come ad un genere letterario che non differisce da un sonetto, un'ode o un romanzo giallo se non per le regole - anche queste in evoluzione storica - a cui il testo deve sottostare.
Dopo questo sguardo alla propria disciplina da una prospettiva straniante, sguardo forse un po' provocatorio ma certamente fondato, ho chiesto ai docenti di mettersi a coppie miste (uno umanistico, l'altro scientifico) e di presentarsi vicendevolmente. Ciascuno poi si è "straniato": si è presentato a tutti come se fosse l'altro, cercando di descrivere empaticamente come proprie le motivazioni del collega, le passioni e gli interessi che l'hanno condotto a seguire il suo percorso di studi.

Ecco, a questo punto ho potuto cominciare a parlare di fantascienza. Il fandom, gli studiosi e i professionisti del settore a volte danno per scontato che il canale di comunicazione interdisciplinare sia ricettivo e sgombro da pregiudizi o barriere difensive. Forse l'ho dato per scontato anch'io quando, in occasione di un precedente intervento, ho parlato di sf e mi sono ritrovato davanti a un uditorio perplesso e un po' riluttante. Stavolta, invece, sono riuscito a creare le condizioni per un seminario e un laboratorio efficaci.
Ho fatto qualche domanda preliminare. Su circa cinquanta docenti (che ho incontrato in due turni da tre ore) una decina avevano visto un film di fantascienza nell'ultimo anno; tre o quattro, nello stesso periodo di tempo, avevano letto un libro che si sentivano di ascrivere a questo genere letterario. Ancora: circa dieci avevano letto almeno tre romanzi di fantascienza nella loro vita. Tra gli insegnanti di lettere, tre, mi pare, avevano utilizzato qualche volta la sezione dei libri di testo (presente in genere nei volumi per la V elementare e per la III media) dedicata alla letteratura fantascientifica.
Ho parlato un po' dello sviluppo del genere letterario, citando cose che ogni studioso e molti appassionati sanno, ma in gran parte nuove per l'uditorio: protofantascienza, meraviglioso scientifico, le riviste anni '20 e '30, Hard SF, Space Opera, Social SF, New wave, fantascienza anni '70, Cyberpunk, fantascienza fuori dall'occidente, fantascienze ibridate con altri generi ecc. Poi ho detto qualche parola sulla fantascienza italiana, con un breve approfondimento a quello che è il mio campo di studi: la fs in autori del mainstream letterario.
Infine sono passato a descrivere alcuni tratti teorici e formali della fantascienza, che sono poi i punti più significativi per introdurre gli aspetti didattici. La fantascienza come estrapolazione di un elemento del presente e le conseguenti modifiche di uno scenario futuro, in un ottica di sistema complesso. Come stimolo alla curiosità per la scienza; come serbatoio macrotestuale di idee e di lessico in continua evoluzione. La fantascienza come letteratura dello straniamento cognitivo, che mette al centro la differenza tra il mondo empico e quello narrativo (il novum) e consente al lettore di valutarli da un punto di vista esterno a entrambi.
Se queste sono le premesse, la fantascienza, a scuola, può diventare strumento di educazione civica, ambientale e all'uso della tecnologia (ambiti che richiedono conoscenze integrate e capacità di proiettare nel futuro gli effetti dei propri comportamenti); di interculturalità e accettazione dell'altro e delle sue diversità; di applicazione al contempo di nozioni scientifiche e letterarie nella stesura di testi.

E poi siamo venuti al dunque. Quanto spesso un insegnante di lettere chiede agli studenti di scrivere un testo di fantasia e d'invenzione? Abbastanza spesso. E quante volte ha l'opportunità di farlo egli stesso, ricordandosi quali sono le difficoltà e le soddisfazioni di questa consegna? Per molti, nessuna.
Dati l'ambientazione scolastica e cinque diversi spunti, ho quindi chiesto ai docenti di dividersi in piccoli gruppi e di elaborare dei testi fantascientifici, non necessariamente narrativi. I minuti a disposizione non erano molti, quindici-venti, ma l'impegno profuso dagli insegnanti è stato encomiabile e la varietà dei testi al di sopra delle aspettative: un testo regolativo sull'uso delle strutture scolastiche (refettorio, servizi igienici e palestra) in assenza di gravità; un invito ad un corso di aggiornamento pensato per insegnanti che devono imparare a gestire i poteri psichici comparsi in un'ingente fetta della popolazione infantile; una circolare del dirigente scolastico che, in base a recenti scoperte genetico-pedagogiche, impone di suddividere le classi in base al colore degli occhi; un testo normativo con cui la scuola, sponsorizzata da privati e obbligata a far loro pubblicità, stabilisce le sanzioni per chi non rispetti le politiche commerciali della struttura; un testo narrativo - necessariamente molto breve - sulla scuola al tempo della simbiosi cerebrale con la rete e i social network (che riporto alla fine del post perché mi è sembrato tra i più significativi). E diversi altri, di cui solo uno o due non del tutto adeguati.

Infine ho consegnato alcuni brevissimi racconti da leggere e da utilizzare come spunto per progettare un'attività didattica interdisciplinare. I docenti hanno avuto poco tempo per condividere le loro idee, ma anche questa attività mi sembra sia stata ben accolta.

Una giornata intensa e arricchente. Per me sicuramente, confido anche per i docenti. Un altro piccolo contributo a favore della causa fantascientifica per la quale, non senza autoironia, mi pregio di combattere. Per dirla con Raymond Queneau: «La Science-fiction vaincra»

♦♦♦

GEORGE
  
Ore 8:00 di un mercoledì mattina.

«Tarkoski, parlami della storia della centrale idroelettrica di P.»

La domanda del prof. Severio Weah arriva precisa e pungente. La settimana scorsa siamo stati al campo scuola di M. dove abbiamo seguito il solito programma che tradizionalmente svolgono le scolaresche.
Ovviamente non ho nessun timore di rispondere, dato che George è già attivo da un'ora.
Google, centrale di quel figlio di P., wikipedia...

«La centrale è stata fondata nel 1902, per iniziativa di Napoleone IV che voleva fornire energia al paese circostante dalla Confederazione del...»

BLACKOUT

Ecco, non ci voleva, la solita storia quando arriva il tecnico informatico che attiva il firewall.
Da un po' di tempo le scuole hanno scoperto le potenzialità di George e fanno di tutto per bloccarlo. Ora non posso più accedere a internet e devo attingere solo dai miei ricordi.

«... la Confederazione del blackout», mi esce di bocca, ma mentre lo dico capisco di essermi reso ridicolo.

«Tarkoski - mi incalza il prof. Severio - cosa ti succede? Va tutto bene?»

Non so più cosa dire, la mia salivazione è azzerata. George non può più connettersi a Internet, però può utilizzare il social network coi compagni. Mi viene l'idea. Subito faccio partire le offerte.

Mario, 5€ se mi dai la risposta - Ne voglio 20.
Geremy 10€ se mi aiuti - Scordatelo, ne voglio almeno 30.

Intanto i compagni comunicano tra loro, sempre grazie a George si crea un cartello che fissa il prezzo a 1000€ . Non posso rimanere senza parole e devo accettare. 1000 € , faccio il bonifico e la risposta arriva subito.
Soddisfatto e fiero di me stesso, rispondo bandalzoso al prof. Weah:
«Sì».

venerdì 23 ottobre 2015

Libri che colano, libri che volano e altri strani libri

Retrospettiva Stranimondi 2015


Le biblioteche domestiche, tanto più in un periodo come questo in cui si stampano così poche versioni cartacee, dovrebbero essere sempre ordinate: i libri non devono stare troppo stretti o troppo larghi; non devono esserci libri sopra altri libri, o libri dietro o dentro altri libri. Questo perché, ogni tanto, a distanza di anni, si riprende in mano un volume, cogliendolo dalla libreria sovrappensiero come quando si strappa un filo d'erba o una spiga. E allora, in quel momento di grazia, la mano, mossa da una volontà così labile, non deve trovare ostacoli che le impediscano di afferrare il reperto e infondergli linfa per qualche istante. E ogni libro prende vita a modo suo: c'è quello che ti lascia cadere uno scontrino sbiadito; quello che proietta uno di quegli ologrammi che andavano di moda dieci anni fa; quello comprato in bancarella che - non sai se per un mal impresso ex libris o per le pagine segnate da frettolose refezioni di gente ormai deceduta - pare emettere d'un tratto un acre odore. C'è il manuale che studiasti per un esame e il testo che leggesti in quarta elementare. La raccolta che contiene il racconto che vale la raccolta; il romanzo di cui ricordi una singola potente immagine sulla quale però in pochi istanti si impone quella in copertina.

Ma parliamo di questi libri. Cosa mi dicono, dopo tanti anni, questi volumi che mi sono portato a casa dalla prima edizione di Stranimondi?
Mi ricordano che già nel lontano 2015 - facenti fede le date del 10 e 11 ottobre - la fantascienza italiana era vitale e interessante, o meglio,  aveva una nuova occasione per riconoscersi tale, per sapere di valere. Editori, scrittori, studiosi e lettori si erano dati convegno per attestare la loro passione, il loro impegno, la loro fiducia nei confronti di un genere così vasto e bello e pure, allora, così misconosciuto, serrato com'era in una morsa tra la nomea accademica di 'popolare' e la nomea popolare di 'settario'; tra la ritrosia da parte dei grandi editori a chiamare le cose col loro nome e l'ostinazione da parte di alcuni esponenti del fandom a non tollerare corpi estranei nelle loro letture. Molti di questi irriducibili non si sono mai ricreduti: ne ho avuto recente conferma da un infermiere di 'Dimora Stellare', aggredito a colpi di deambulatore brandito al grido "non è fantassienza! non è fantassienza!". Per il resto, sappiamo tutti com'è andata: la fiducia di quei - quanti erano? - seicento partecipanti era ben riposta, il loro ottimismo motivato. Se a riprova di ciò non bastassero i cinque riconoscimenti - attesi e meritatissimi - vinti dalla narrativa italiana agli ultimi premi Hugo e Nebula, si potrebbero citare i diversi grandi nomi della SF internazionale che - sulle orme dell'indimenticato precursore Bruno Argento - hanno scelto di vivere in Italia. E si potrebbe citare Pseudocronia di Margaretti, che, perso due anni or sono il Nebula a causa della spiacevole vicenda dei 'Good Old Gentlemen', è stato ora selezionato per una delle monumentali trasposizioni di Virtual Life Mask. Anche sul piano delle grandi case editrici si è mosso qualcosa: Mondrifà, ad esempio, superati i problemi con l'antitrust, forte delle sua duplice esperienza nel campo, sta puntando molto su fantastico e fantascienza, riguadagnando terreno su quei piccoli editori che hanno eroicamente traghettato il mercato della letteratura di FS agli attuali felici lidi. Certo, sarebbe ingenuo attribuire al successo di Stranimondi quella che, se non fu un'inversione di tendenza, fu una prodigiosa accelerata su un valido percorso già intrapreso. Perché a tale fenomeno contribuirono anche altri fattori, esterni non solo alla fantascienza, ma allo stesso mondo letterario. Ma sarebbe altrettanto riduttivo non leggere nel movimento della fantascienza italiana dalla periferia al centro un riflesso di quella valorizzazione delle periferie (al plurale: geografiche, cronologiche, di genere, mediali) visibile in maniera organica proprio in quella prima edizione del festival. Edizione caratterizzata peraltro da una perfetta organizzazione, da un clima disteso, propositivo, collaborativo; da sorprendenti momenti di agnizione tra persone che si vedevano per la prima volta dopo essersi conosciute sui social network, prima che questi degenerassero nelle loro attuali forme. E se questi sono aspetti, è vero, non del tutto inediti in manifestazioni precedenti né, ovviamente, assenti in incontri successivi, è vero anche che per molti dei partecipanti assunsero il valore e la forza assertiva di un vero e proprio mito fondativo.
Ma ecco che, tra i sei volumi che costituirono il magro bottino di quell'ottobre 2015, afferro d'istinto due libri molto diversi. Rappresentano poli opposti della fantascienza e, in un certo senso, due concezioni diverse di letteratura. Già allora, leggendoli e poi riponendoli sullo scaffale, mi domandavo in che modo avrebbero preso vita nei miei ricordi e mi rispondevo scrivendone delle recensioni, che qui riporto.



Il libro che cola


Mondo9 di Dario Tonani è stato ristampato in agosto sull'Urania Millemondi 72, assieme al suo seguito, Mechardionica. Il corposo volume mondadoriano, magistralmente illustrato da Franco Brambilla, raccoglie per la prima volta le due opere dell'autore milanese, pubblicate rispettivamente nel 2012 e 2013 da Delos.
Mondo 9 - mi riferisco ora solo alla parte del 2012 - è un romanzo che cola, percòla e smòccola qualsiasi tipo di fluido organico o inorganico: sangue, guano, sudore, muco, urina, vomito, qualsiasi tipo di escremento o di poltiglia, olio, pioggia contaminata, acidi, veleni. Non mi stupirei se, tra qualche decennio, sollevando il volume per un angolo del frontespizio, da esso cominciasse a grondare del liquame bruno. L'opera è un fix-up di quattro racconti, un prologo, un epilogo e alcuni intermezzi, uno dei quali è una short story in sé. Le vicende coprono un arco di circa trent'anni e seguono le vite - ma nessuna delle due si può propriamente chiamare tale - del Guardiasabbia Garrasco e della nave Robredo. Ma se, dal punto di vista dei personaggi umani, Mondo9 è un romanzo corale e frammentato - perché la componente antropica cambia di racconto in racconto - esso trova la sua unità nella componente macchinina: la nave Robredo e la sua lotta per un'ambigua forma di sopravvivenza sono al centro di tutti gli episodi. Lotta contro l'ambiente inospitale - ma forse meno alieno per essa che per le scimmie nude -; lotta contro gli esseri umani, che la vorrebbero imbrigliare, ammansire e infine distruggere, ma di cui pure ha bisogno.
C'è da giurarci che su Tonani non fa presa la trappola ontologica della nave di Teseo, della quale si cambiano i pezzi uno dopo l'altro e ci si domanda se sia ancora la stessa nave. Perché su Mondo9 tutto si ricicla e si ricambia: tutto è biologico, fisiologico, “ecologico”, come in ogni planetary romance che si rispetti: nel senso che tutto il vivente è tanto più collegato quanto più l'ambiente rende arduo preservare la continuità della vita. Qualunque materiale che abbia ancora un'ombra di ordine biologico è funzionale a combattere l'entropia della sabbia indistinta. Un po' come accade in Dune: e  l'immagine del cardo mangiaruggine che, sbucando dalla sabbia, fagocita la Robredo è probabilmente debitrice dello Shai Hulud che attacca la mietitrice di spezia.

Il romanzo inizia già con una situazione di sudditanza dell'uomo alla macchina. Sudditanza che si configura inizialmente come economica: è meglio sacrificare vite umane che perdere i costosissimi meccanismi che consentono alle navi di muoversi sulle dune in modo relativamente stabile. Come si è giunti a questa situazione? È difficile non adottare uno sguardo archeologico, quasi di archeologia industriale: Mondo9 forse è stato lasciato a imbarbarirsi da una civiltà interplanetaria civile e evoluta; traspare dal libro un passato neanche troppo lontano in cui le navi erano qualcosa di controllabile dall'uomo; in cui la competenza tecnica e teorica degli esseri umani riusciva a gestire quella che sembra essere un'intelligenza artificiale con programmi definiti e senza sorprese. Ma sin dall'inizio del libro il governo delle navi è qualcosa di misterioso, che vede coinvolti dei tecnici, dei fabbri, ma anche degli avvelenatori, a conferma che la tecnologia comincia a prevalere quando il suo  funzionamento è frammentato, nessuno lo conosce complessivamente ed e quindi descritto in termini di magia e di superstizione. Passata la fase di pieno controllo umano, la tecnologia comincia a evolversi autonomamente. E nell'evolversi a grande velocità - dopotutto è un'intelligenza artificiale e non procede a tentoni, a caso - la specie-nave inizia ad interagire con l'ambiente, a copiare le forme che trova in esso (è il caso degli uccelli perennemente appollaiati su ringhiere e ciminiere), ad utilizzare gli umani come simbionti, in una coevoluzione impari (senza apparenti vantaggi per l'uomo) grazie alla quale la nave sfrutta proprio quelle proprietà che costituiscono l'unicum dell'uomo: il linguaggio e la consapevolezza della morte. In quasi tutto il libro, il racconto in terza persona si alterna ad una forma diaristica, ma anche le riflessioni, gli improperi e le suppliche di questi improvvisati scrittori (che scrivono per sapere di essere vivi e di essere umani) vengono in qualche modo assimilate dalle macchine che le riciclano come materiale verbale per imparare qualcosa del mondo esterno a loro prelcuso, oppure per vomitarle ripetendole così come le hanno lette o udite. E anche la credenza (o la consapevolezza) di un qualcosa dell'umano che sopravvive alla morte fisica viene cooptata in senso fisiologico dalle grandi navi, per cui la popolazione umana si divide in Esterni (vivi e doloranti, un'umanità sofferente) ed Interni (morti, forse un po' meno  sofferenti, ma vero “software” delle macchine: un'umanità infera). Questa pare essere la rivelazione,  a piccole dosi, del libro: alla fine l'uomo, per sopravvivere, ha dovuto farsi macchina nella sua forma vivente e morta (o immortale) e quello che pareva essere l'instaurarsi di uno sfruttamento della  macchina sull'uomo è, come sempre, il giogo dell'uomo sull'uomo, con le macchine come tramite.  Questo riduzionismo dell'uomo alla sua funzione biologica è presente di continuo in alcune immagini di morte e di assimilazione, ma il senso complessivo dell'accostamento dei quattro racconti - dei quali l'ultimo è in qualche modo risolutivo - è qualcosa che il libro secerne nella sua interezza. Ancora una considerazione sul riduzionismo al biologico e sulla sua simbologia: dicevo che ci sono tutti i fluidi. In realtà ne manca uno, forse quello che nel bene o nel male rappresenterebbe la trasmissione della vita, la prospettiva di un futuro dell'uomo come specie. Non ci sono nascite di bambini, non ci sono famiglie se non fratello e sorella, non ci sono storie d'amore o accenni alla sessualità. Difficile stabilire se questa sia una condizione generalizzata su Mondo9 o il particolare focus di Tonani sulla sua creatura. A questa e altre domande spero potrò rispondere dopo aver letto le opere successive.

Mondo9 è un gran bel romanzo, con ottime idee in termini di immaginario, di contenuti e di commistione di generi. Lo suggerisco a chiunque ami la fantascienza, a meno che non sia ornitofobo (sì, lo ammetto, forse lo sono un po') o facilmente impressionabile. Se dovessi definirlo, direi che è un planetary romance distopico con diversi elementi horror-splatter e qualche accenno fantastico/soprannaturale: ma a che servirebbe definirlo? Lo stile è molto visivo, asciutto, cronachistico. Freddo e - hanno fatto notare molti - privo di empatia. E se è vero che è esattamente questa la prospettiva di Mondo9 (che empatia si può provare per esseri che fungono da serventi prima di essere scissi in software e liquidi?) è anche vero che questo limita le opportunità espressive, la possibilità di modificare il tono e la velocità del racconto. Forse qualche variatio avrebbe giovato al romanzo, in particolare nelle parti diaristiche, che avrebbero potuto essere un forte stacco rispetto al corpo del testo.

(Qui la recensione a 'Mechardionica')


Il libro che vola

 


Dimenticami Trovami Sognami (d'ora in poi DTS) di Andrea Viscusi è un libro leggero, quasi impalpabile. A tirarlo fuori dallo scaffale potrebbe levitare, prendere il volo, dissolversi in pulviscolo e lasciarti in mano una lieve scia stellata, come bava di lumaca. In questo senso, la copertina scelta dall'editore (Zona42) - enigmatica, essenziale, dai colori pastello - rispecchia perfettamente il tono di questo romanzo che certamente è di fantascienza, ma che non sarei capace di ascrivere con certezza a un sottogenere. Fantascienza filosofica alla PKD? Fantascienza umanistica alla Sagan? (E penso ovviamente a Contact, col quale noto alcune convergenze nella trama.) O magari inner space opera? (Ho googlato tra virgolette: qualcuno ha pensato prima di me a questa etichetta. Peccato. Ad ogni modo, intendo quella dimensione estrema dell'utopia che è l'epica del genere umano, la sua statura esistenziale e interiore al cospetto della sua fragilità nel tempo, nello spazio, nel possibile.)

Se non fosse traboccante di riferimenti diretti e indiretti al grande canone fantascientifico internazionale (di più ho trovato solo in Avoledo, con quasi una facciata di descrizione di una collezione di autografi...) DTS potrebbe sembrare la svolta SF di un autore del mainstream letterario. E ciò, beninteso, è cosa buona, cosa molto buona: la preminenza del libro sul genere (dell'esemplare sulla specie) mi pare segno di libertà stilistica, di autonomia autoriale. Il libro è scritto bene, il dettato è pulito, sempre comprensibile e non riserva particolari sorprese. A sorprendere sono i contenuti - eterogenei, disparati, eppure presentati in modo organico - e la struttura, che asseconda i contenuti e in ogni momento dimostra un ottimo lavoro di sintesi. È difficile dire di cosa parla il romanzo senza soffermarsi sulla trama. Le tematiche sono quelle esplicitate dal titolo e dalla copertina: la memoria, il sogno, la sostanza di cui è fatta la realtà. Il concreto ha pochissimo spazio nel romanzo di Viscusi e, a partire dalla seconda metà, DTS procede alternando astrazione concettuale e immersione nelle profondità archetipiche. Inutile dire che lo fa in una prospettiva di sintesi, anche qui riuscitissima.
Anche se, come dicevo, non è quasi mai difficile seguire il filo della narrazione, quello di Viscusi è, per alcuni versi, un romanzo sperimentale. Lo è soprattutto nell'utilizzo di generi letterari o, meglio, di forme di comunicazione diverse (la narrazione standard, il dialogo della grande tradizione filosofica, la trascrizione della registrazione di una seduta psicanalitica, il racconto dettagliato di un sogno) e nell'alternarsi di tutte e tre le persone grammaticali nel ruolo di narratore (in particolare l'uso del tu è di grande impatto).

Una trattazione a parte meriterebbero gli aspetti metanarrativi del testo, così significativi per una descrizione della realtà in cui la narrazione condivisa di un evento (anche solo interna al soggetto) può precedere e causare l'evento che descrive e sopravvivere senza creare paradossi a narrazioni alternative, in forme che, non essendo (più) mimetiche rispetto al mondo empirico, sono appunto letteratura finzionale. Come il romanzo di Viscusi. E quando un romanzo, anche a lettura conclusa, riesce a suggerire un modo di lettura e di fruizione di sé stesso, mettendosi per così dire en abyme, il lettore non può che avvertire un brivido lungo la schiena.

L'unico elemento debole, a mio avviso, è la caratterizzazione dei personaggi. Non so se fosse possibile fare diversamente in un romanzo con questo impianto, ma più che a 'qualcuno', i personaggi principali - insomma, lui e lei - sono simili a 'ciascuno', all'everyman del teatro inglese medievale. Diversamente avviene per i personaggi secondari, in particolare per il professor Novembre, in un  certo senso metapersonaggio: personaggio di un personaggio. Ma ho già detto che la metanarrazione richiederebbe spazi più ampi. 

Dimenticami Trovami Sognami è una piccola rivelazione. Uno di quei libri che forse anticipa il pubblico e che di conseguenza è in grado di creare un suo pubblico. Verrebbe da dire 'retroattivamente'. Complimenti a Viscusi e a Zona42.