domenica 12 febbraio 2017

Eptapode A2. Riflessioni sconnesse a margine e al centro di Arrival

Chi pensa di fare una recensione obiettiva, asettica, di un film, o è un vero professionista – e in questo caso la sua obiettività sarà tale all’interno di in un paradigma condiviso – oppure coltiva una pia illusione: che sia possibile scrivere d’altro senza scrivere di se stessi. Stavolta non proverò neanche a parlare solo del film e inizierò da me.



Lavoro in una onlus che si occupa di accoglienza dei richiedenti asilo; conosco un sacco di ragazzi pakistani afgani, iracheni, bengalesi e di altre nazionalità. Mi occupo tra l’altro di istruzione e formazione: tengo i contatti con i docenti della scuola pubblica e di altre istituzioni che forniscono loro i corsi d’italiano e professionalizzanti. Insegno io stesso la mia lingua madre, quando non sono impegnato in attività che a torto o a ragione sono da considerare più urgenti.
Sono andato a vedere Arrival con un giovane afgano che ormai considero un amico. La sua lingua madre è il dari, il nome che si dà al farsi (che poi sarebbe il persiano) in Afghanistan, nella regione settentrionale, dove abitano gli Hazara, popolo che parla questa lingua. Il mio amico non è qui da molto, ma parla un italiano sufficiente a comunicare quasi sempre in modo autonomo, tra un A2 e un B1, direi, secondo il quadro di riferimento europeo. L’ho invitato al cinema nella speranza che capisse a grandi linee il film, comprendendo una buona parte dei dialoghi.
Ad un certo punto, però, ho sperato che non capisse. È stato quando il colonnello Weber ha chiesto alla professoressa Banks di provare a tradurre la lingua degli eptapodi “perché ci ha dato una mano con il farsi”. Sono sprofondato nella poltrona a sentire tale sciocchezza, che così parafraso: “Giacché hai miracolosamente “decifrato” una lingua parlata da cento milioni di persone, per la quale ci sono corsi all’università e vocabolari reperibili in tutte altre le altre lingue, saprai gestire anche una lingua aliena, giusto?”.
Certo, anche la dott.sa Banks sembra perplessa per la superficialità del militare; certo, nel libro di Chiang il paragone (ma dice che non c’è paragone) è con le lingue delle popolazioni amazzoniche. Certo tutto va contestualizzato e interpretato. Ma, infine, come affrontare con l’afgano il fatto che, per Hollywood, e quindi per la fonte del nostro immaginario, tra lo straniero e l’alieno non c’è una differenza apprezzabile?
Chi ha studiato un po’ di fantascienza o un po’ di legge sa che “alien”, nei paesi di lingua inglese, era in origine, e spesso è ancora, un termine utilizzato per designare lo straniero percepito come ostile. Alieni erano definiti i Cinesi nelle leggi di espulsione di fine ottocento, alieni probabilmente sono o saranno i clandestini che Trump vuole cacciare e i regolari che non vuole far entrare. Ma in fondo anche la fantascienza, quel genere tanto trasformativo-evoluto-progressista, accetta di buon grado che l’alieno sia immagine e figura dell’altro da sé, in termini di cultura, provenienza, lingua, genere. Ed evidentemente lo accetto anch’io, visto che non riesco a fare a meno di pensare che il tema al centro di Arrival, il linguaggio, mi riguardi particolarmente in questo momento della mia vita; che sia anche – riprendo il titolo del racconto lungo di Ted Chiang – una delle “Storie della mia vita”.

Lingua farsi a parte, Arrival è un film stupendo. Gli attori sono adeguati (ho visto il film in italiano e non mi sbilancio), la musica accompagna il film in modo discreto e (quindi) eccellente: riascoltandola se ne può apprezzare anche consapevolmente la qualità. La fotografia è eccezionale e le navi degli Eptapodi, quasi-atterrate sul nostro pianeta, fanno la loro figura. Non c’erano nel libro, o meglio, forse c’erano ma erano in orbita. Al loro posto, c’erano centododici postazioni di comunicazione, specchi o schermi attraverso i quali gli esseri umani potevano comunicare con gli eptapodi. Ma la fascinazione hollywoodiana per il BDO, il big dumb object, non viene mai meno, ed è giusto così. Peraltro il film non ha rinunciato all’idea del looking glass, e mi piace ricordarlo a qualche giorno dalla scomparsa di Todorov, che diceva che gli strumenti ottici e le facoltà dello sguardo sono alla base di ogni narrazione fantastica.
La trasposizione non è stata letterale, ma lo spirito del racconto si è preservato ed è raro che si possa dire, come in questo caso, che un vero racconto di fantascienza sia diventato un vero film di fantascienza. “E della migliore fantascienza”, direbbero i puristi, membri della lightsaber unappreciation society.
La componente dinamica, di conflittualità non solo interiore ma esterna, che penso sia necessaria in un film, è stata introdotta egregiamente: non lo leggerete spesso da me, ma le scene col generale cinese sono una valida aggiunta al libro.

Ho detto che il tema principale è il linguaggio. Secondo me lo è, ma forse è anche perché non sono capace di fare dissertazioni sul tempo e sul teorema di Fermat: prenderò per buone quelle di chi ha scritto che è solo una categoria della nostra percezione. A me interessa, appunto, il linguaggio: in particolare l’idea che le strutture sintattiche o semantiche (di significato) di una lingua possano modificare le suddette categorie della nostra percezione. Così suggerisce l’ipotesi di Sapir-Whorf, su cui si è molto dibattuto e che secondo molti linguisti è un assioma arbitrario e non dimostrato. Secondo i due studiosi, una lingua non è solo uno strumento per comunicare dei contenuti, ma è essa stessa fatta di contenuti, inseparabili dal modo di trasmetterli. Nel delimitare le cose con una parola non indica soltanto un referente, ma lo circoscrive; nel collegare causalmente due fatti – e qui estrapolo Sapir-Whorf a vantaggio della lettura del testo di Chiang e del film – non descriverebbe una causa, ma istituirebbe il concetto di causa, ravvisando arbitrariamente una connessione naturale e temporale laddove l’unica connessione è quella sintattica. Secondo S-W gli eschimesi, che hanno tante parole per descrivere i diversi tipi di neve, avrebbero un cervello anche più predisposto a riconoscere le differenze nella neve. Allo stesso modo, la percezione dei colori sarebbe più accurata nelle persone che parlano una lingua dove i nomi dei colori sono in numero maggiore. E, per parlare del tempo, le lingue in cui il futuro è un “tempo” (ovvero principalmente una collocazione temporale di un’azione) e quelle in cui è un “modo” (ovvero un modo di rapportarsi del parlante ad un’azione) veicolerebbero diverse idee del futuro come ineluttabile o in divenire; predeterminato o modificabile dal libero arbitrio.
L’idea di base di Chiang è che la lingua scritta degli Eptapodi abbia una tale struttura da spezzare la comune percezione di causa-effetto, strettamente legata alla linea del tempo, e che ciò consenta a chi la utilizza di vedere il futuro e il passato sullo stesso piano su cui è arbitrariamente posto il presente. Il dono che gli Eptapodi vogliono fare agli esseri umani – e qui il film è più esplicito del libro – è la loro stessa lingua, la facoltà quindi di astrazione dal tempo presente, posseduta dalla dott.sa Banks una volta appreso l’Eptapode B.
Nel libro gli alieni sono – così dicono – degli osservatori. Nel film viene introdotta l’idea che essi avranno bisogno dell’aiuto degli esseri umani tra tremila anni. L’insegnamento della loro lingua scritta è un investimento: vogliono modificare l’uomo attraverso quello che W. S. Burroughs chiamava il virus del linguaggio. Vogliono renderli più attenti al futuro, più disponibili ad antivedere le conseguenze delle loro azioni; vogliono donare loro saggezza in modo che la lingua diventi strumento di empatia. Magari il loro pianeta subirà un cataclisma ed essi avranno bisogno di un posto dove stare, tra qualcuno che, almeno per qualcosa, assomigli a loro.



Tra libro e film tanti altri sono i concetti legati alla linguistica. Molti sono i rudimenti, che si possono imparare alle prime ore di un corso universitario di linguistica o filosofia del linguaggio, ma l’estrapolazione in ambito xenolinguistico è veramente apprezzabile. Mi sono tornati in mente, così come mi tornano in mente spesso quando insegno ai miei ragazzi, gli aneddoti e le idee che mi hanno comunicato due ottimi docenti dei corsi citati sopra. Conoscevo già l’aneddoto, vero o falso, dei canguri, citato sia nel film che nel libro. Ma ancora più gustoso è quello del monte “Somia”: un poco accorto etnolinguista attribuì tale nome a un rilievo, dopo che il montanaro a cui l’aveva chiesto gli aveva risposto, in dialetto, “non lo so mica”. E che dire del coniglio, che lo studioso alle prese con una lingua mai studiata da nessuno vede passare e indica all’indigeno? Appresa la parola ad esso relativa, potranno essere d’accordo d’ora in poi, a pronunciarla quando vedono un coniglio passare. Ma l’etnolinguista non saprà mai se l’indigeno vede l’essere come un “coniglio” o come uno “stato ininterrotto di coniglità”.

Ritorno all’attuale Storia della mia vita. Vedo tante persone che stanno imparando l’italiano. Osservo come il loro linguaggio non verbale (il volume della voce, la prossemica, la gestualità) cambi secondo che parlino la loro lingua madre, l’inglese o l’italiano. Sono terrorizzato dalla responsabilità quando vedo che coloro per i quali sono stato uno degli “informatori” (così si dice in gergo tecnico) italiani più rilevanti, hanno preso qualche tratto del mio idioletto e della mia mimica. Spero che il mio virus non sia dannoso.

Da parte mia, cerco di imparare qualche parola di Dari, di Pashto, di Urdu, con la certezza – dite pure “con l’illusione un po’ romantica” – che anziché andare a riempire una scatola cranica di nozioni, la sgombri da quel po’ di pregiudizio che ancora vi risiede.



Purtroppo non conosco l’eptapode: la presenza dell’amico afgano in Italia non so come andrà a finire. La burocrazia è lenta e non si può sapere se le persone incaricate di prendere una decisione saranno umane.

Però già so che in qualunque modo le cose andranno a finire, il gioco sarà stato non a somma zero.