sabato 24 dicembre 2016

Trilogia degli incompetenti

Documento 35576425a, chip di memoria oloquantistica, ritrovato sui detriti Yomarus III dalla Supreme Voyager 342. Seduta del fu Consiglio Intergalattico. Frammenti. Audio compromesso. Seguono documenti 35576425b, c, d.

«[...] di oggi sia proficua, per decidere ciò che è meglio [...]»
«[...]rappresentino un pericolo per [...]»
«[...] discrepanza tra le con... [...] ma soprattutto tra la tecnologia e la levatura [...]»
«A ciascuno degli ambasciatori vengono ora trasferite le [...] secondo il metodo prescelto da ognuno»
[Piccoli schermi olografici si aprono di fronte a una buona metà dei presenti; altri si infilano in qualche orifizio uno spinotto fuoriuscito dai banchi del senato; alcuni sollevano cosmicamente la testa per entrare in meditazione.
L'ambasciatore Ghorasz-Nhour ingurgita una poltiglia grigiastra, con grande detrimento personale e dei vicini]




Il mondo che cresce

Conoscere i nomi di tutte quelle piante, le loro flessibili o inflessibili geometrie, le loro sfumature di colori e odori gli dava un senso di pace e di sicurezza. Erano nomi che nessun altro sapeva: lui stesso li aveva stabiliti, adeguandoli per quanto possibile alla variegata vita vegetale che prosperava su Dawkins. Ma aveva la sensazione di averli appiccicati come post-it su una superficie troppo ruvida: presto se ne sarebbe andato, ed essi sarebbero caduti uno ad uno, senza rumore, prima ancora che il mite inverno afelico strappasse dai rami le foglie decidue.

Dawkins era un raro caso di pianeta botanico. Non c’erano animali superiori veri e propri, autonomi. Tutte le creature che si erano evolute lo avevano fatto all’ombra della vita vegetale: tutte erano ibridi o simbionti, spesso specie-specifici. C’era il Pinoides arborescens e l’Apis pinicola var. arborescens. C’era la Ledeburia megalocristata e il suo specifico verme. Il Platanus nucifera var. tarsiis e il relativo tarsio. Questo si arrampicava sugli alberi, coglieva le grosse capsule, le portava lontano e le frantumava contro una roccia, per suggerne il succo, liberandone così i semi. Enrico lo guardava ammirato e la mente ritornava a vaghi ricordi universitari: per tutti questi animali, gli alberi e le piante erano cibo, rifugio, alcova. Sapeva che si trattava sempre di coevoluzione e che era superfluo domandarsi se gli animali si fossero adattati alle piante o se queste avessero in qualche modo addestrato, addomesticato gli animali. Ma nel caso di Dawkins propendeva decisamente per questa seconda ipotesi.
Enrico, botanico lui stesso, riusciva a immaginarsi in questa vita botanica, a trovarla sensata. Il tempo che si trascorre colle piante è fatto di silenzi corrisposti, di cure amorevoli e secrete cure, di disperata vulnerabilità. Voluttà d’acqua e di sole, bellezza estatica, immobile o ghermita dal vento, modellata da milioni di primavere estati autunni inverni.
Enrico viveva perpetuamente uno strano rapimento, come quello che si prova quando ci si risveglia nel primo pomeriggio, si guarda il cielo, le case, gli alberi color pastello e si gode del sole che illumina anche il nostro volto. Prima di rendersi conto di chi si è, di cosa si debba fare e che in fondo si è soli a questo mondo.
Quale mondo? Ormai il suo mondo era questo, Dawkins. Della sua vita precedente – poteva chiamarla così? – ricordava sempre meno. La sua memoria era sbiadita, come se appartenesse a qualcun altro. Persino i ricordi più recenti erano stranianti e confusi. Aveva provato la solitudine, l’ingombrante angosciosa presenza di noi stessi aggravata dall’assenza degli altri: com’era stato possibile? Poco a poco – era qualche settimana fa o un tempo remoto? – si era avvicinato a Clarissa Genchi, la genetista della squadra: il suo compito era modificare le specie che si fossero rivelate utili – utili? – dotandole di una variabilità che consentisse loro di essere portate su altri pianeti con un minimo di accorgimenti, di quelli soliti: resistenza al caldo o al freddo, alle radiazioni, alla stasi temporale necessaria al viaggio iper-luce. Il lavoro congiunto di evoluzione casuale e di finalità umana era il binomio perfetto. La progettazione di una specie ex novo non era nelle possibilità degli esseri umani perché richiedeva una capacità di calcolo ancora ineguagliata: erano necessari un pianeta e un ecosistema; e le centinaia di migliaia, i milioni di anni, erano le unità di computazione minime per produrre da zero una forma di vita, per affinarne la morfologia e i meccanismi regolatori. L’uomo, però, era in grado di cogliere queste potenzialità, di sfruttarle appieno, di forzare la sopravvivenza anziché di conseguirla attraverso innumerevoli tentativi.

A tutto ciò Enrico non pensava quando lui e Clarissa erano stati aggrediti da un branco di tarsi insolitamente lontani dai loro platani. Le bestie, una dozzina, erano accorse verso di loro, brandendo pietre e bastoni; li avevano atterrati e con ferocia avevano colpito i loro caschi fino a che questi non si erano rotti. Poi se n’erano andati in fretta, mentre l’odore prorompente di Dawkins invadeva le narici dell’uomo e della donna. Enrico e Clarissa si erano tolti le pesanti tute e si erano presi per mano, intrecciando le dita. Insieme, a piedi nudi sul muschio, erano corsi al seguito d’un vento ebbro, fino ad arrivare a una Quercus nutrix, la più grande che avessero mai visto. Nei recessi delle sue radici, in un talamo naturale, la tiepida carne dell’albero aveva avvolto i loro corpi attorti e frementi, aveva accolto i loro pensieri, serbandoli come il più grande dei tesori.

Ricordi: erano suoi? Perché ricordava Clarissa ora come amante ora come madre? Se voleva rimanere su Dawkins, cosa lo spingeva invece ad andarsene in tutta fretta, ad accorrere all’astronave che si stava preparando a partire? Nudo, con una manciata di semi stretti nel pugno, Enrico si precipitava al portellone che aveva cominciato a chiudersi. Altri lo seguivano. E un altro Enrico, da dentro, lo guardava incredulo. Enrico di fuori poteva indovinare le ultime esperienze del suo omonimo: il ritorno angoscioso all’astronave, le visite mediche, il periodo di decontaminazione, l’inquietudine per le conseguenze delle proprie leggerezze. Capiva e non capiva quella paura, così come capiva e non capiva il senso delle sue parole.
«Ce ne sono a decine, simili a me o alla dottoressa Genchi, o a McGregor o alla Dimitrova. Vengono verso di noi, vogliono appropriarsi della nave. Tentiamo un decollo di emergenza, ma non so per quanto ancora riusciremo a respingerli».
Sì, la descrizione corrispondeva al vero. Ma cosa c’era di male? Per quale assurda ragione stavano ostacolando il mondo che cresce?


Propensioni

Un altro brusco risveglio nel cuore della notte. Gabriella stringeva le palpebre, provava a rilassarsi, a dormire. Ma non appena prendeva sonno era di nuovo lì, sul pianeta Hawking. Brutali grandinate, impietose tempeste di sabbia. “Sollevare i pannelli! Abbassare i pannelli! — l’aveva ordinato migliaia di volte — Interrare il modulo! Emersione!”. La struttura Bioxen obbediva a ogni suo comando, mentre fuori si rincorrevano cataclismi.
Di là dalla spessa parete del modulo abitativo poteva udire un’eco lontana: era la sua voce che mormorava nel sonno. Si ridestava, scopriva di essere di nuovo a casa. Una brezza leggera faceva danzare i petali dei ciliegi nel viale alberato e le finestre cozzavano l’una contro l’altra quando uno sbuffo appena più audace spirava tra i tetti dei palazzi in stile trans-contemporaneo.

Hawking. Colossale deposito di terre rare e metalli pesanti. Forme di vita: nessuna. Pozze di mercurio. Tornado grandi poco meno di un continente. Come dominato da un’intelligenza malvagia, il pianeta avrebbe scatenato tutta la sua furia contro ogni base azotata che avesse tentato di diventare qualcosa che striscia, vegeta, fluttua, si moltiplica, assecondando la naturale propensione dell’universo a soggettivarsi. “Schermo anti-radiazioni! Liquido decongelante!”.
Quant’era piccola la galassia quando Gabriella era bambina. Pochissimi, eroi o folli, intraprendevano viaggi senza ritorno verso destinazioni remote tra le stelle, ma la maggior parte dell’umanità restava coi piedi per terra, nel sistema solare. Poi, proprio quando la promettente giovane donna otteneva l’abilitazione per l’astronautica civile, la velocità iperluce aveva spianato la strada allo sfruttamento degli esopianeti e spalancato le porte di altrettanti inferni.

Tutta la sua squadra era stata inghiottita da un improvviso inabissamento del terreno impossibile da prevedere. Hawking era crudele e astuto. Lei però era stata risparmiata, per trascorrere lì, nell’ozio e nel rimpianto, parte dei suoi anni migliori e poter ritornare infine sulla Terra, dove le vetture solari scivolavano silenziose e leggiadre sopra le città-giardino, dove le vecchie signore si affaticavano pacifiche lungo i viali, senza trovare qualcosa di cui lamentarsi. Dove nei giorni di pioggia i ragazzi correvano a casa coi droni sopra la testa, benedicendo segretamente quell’opportunità di desiderare il sole.

Ma lei non riusciva più a goderne. In piedi, davanti alla finestra, spiava la notte silenziosa da dietro le tende che appena ciondolavano. Tutto era così provvisorio, così futile. Hawking le era penetrato profondamente nell’anima e vi dimorava sottoforma di inquietudine strisciante, di turbamento mal sopito. Un mostro fatto di schianti inattesi e di vorticose rocce acuminate le strappava ogni speranza e lei si ritrovava a respirare affannosamente e a guardare con risentimento e dispetto i gerani che traboccavano dai balconi del vicino. A desiderare che rinsecchissero, che divenissero polvere su polvere.

Una notte, inaspettatamente, la sorprese il ricordo di quel giorno, quell’unico giorno, poco prima di essere recuperata, in cui su Hakwing tutto era calmo. “Apertura ingresso”. Uscì dal modulo abitativo. Trattenne il fiato, perché si sentiva respirare. La sua anima si disperse in quella splendida, infinita distesa di nulla che forse valeva tutta quella tribolazione. Poi ritornò in se stessa. Non da sola.

Quella notte, a quel ricordo, si alzò solenne dal suo letto e si diresse verso la porta finestra. La maschera di imperturbata dignità che aveva indossato per molti anni aveva ormai i capelli grigi. Gabriella aprì la porta-finestra e si sistemò a piedi nudi sul balcone: la superficie era intollerabilmente tiepida.
La comandante alzò le braccia al cielo, assecondando la naturale propensione dell’universo all’essenzialità.

Nessun urlo, un singolo tonfo, anche la strada era tiepida, detestabile. Fu come uno sbattere di imposte.

Dapprima tutti pensarono solo che il vento si fosse fatto appena più audace...


Nel tempo degli dei falsi e bugiardi

Esther accese il proiettore olografico e la sua tuta divenne un rigoglio di rampicanti con fiori carnosi e un gaio svolazzare d’insetti simili ad api e farfalle attorno ad essi. Rivolse al collega uno sguardo malizioso e sbattè le ciglia. «Non dimenticarti» disse, scostandosi una ciocca di capelli rosso fuoco, «il fumo».
«Certo mammina terra», rispose Diego. «O meglio: il vapore acqueo. Stai per fare un maestoso ingresso ninfale»
«Fa lo stesso. L’ultima volta te ne sei dimenticato e mi hai fatto fare una figura di merda»
«Non è proprio così, bella: la colpa è di Tekura. Il tuo abito somigliava a quello dello scemo del villaggio»
«Presso gli Hoatiani di Cygnus IV,» disse una voce nasale da dietro un olotesto fermo da troppo tempo «lo scemo del villaggio ha un valore sacrale: è la voce della verità, il matto del re. Il problema non era nella regia, ma nell’esecuzione»
«Però, è vero che non è stato un successo, ma non abbiamo nemmeno rovinato niente. Uccisi due o tre Hoatiani, il rispetto per la dea non è venuto meno». Diego settò alcuni parametri alla consolle.
«Fare fuori due o tre indigeni è un insuccesso. Gli studi dimostrano che l’idea di un dio vendicativo porta a un’economia di sussistenza, mentre elargire ricompense è più efficace: porta a sviluppo tecnologico e culturale», disse Tekura. Si alzò in piedi e passò attraverso l’olotesto, per dirigersi al pannello di controllo di Diego. Aveva proprio voglia di pontificare.
«Ipocrita», sentenziò Esther. «Li mandiamo a spaccarsi la schiena nei fanghi e ad avvelenarsi i polmoni nelle miniere e poi se ne muore uno col laser apriti cielo!… A proposito, Diego, come mi scendi oggi?»
«Gorgo al centro del laghetto, raggio traente e a seguire sfilata sulle acque»
«Oh, ti piace, sì, quando torno su con la tutina bagnata?»
Tekura arrossì nel vedere la donna che portava entrambe le mani ai seni, e disse sprezzante: «Ti ricordo che oggi devi apparire nel tuo aspetto taumaturgico, non quale ladra notturna di seme»
«Stronzo. L’ho fatto una sola volta, per tua cattiveria»
«No, macché cattiveria, era del tutto coerente col contesto»
«Dannate società patriarcali!», esclamò Esther.
«Scioviniste!», «Fallocratiche!» la canzonarono i colleghi.
«Questo è il BDO di oggi». Heinrich arrivò in plancia, portando dal laboratorio un involto grande come un pugno. «L’archetipo è quello del Graal. Va messo sull’altare vicino a un punto di raccolta. Quando nei magazzini viene rilevato un congruo aumento delle materie prime, i naniti curativi si moltiplicano fino a riempire la coppa»
«Peccato che non curi la coglioneria, altrimenti ne potrebbe prendere Tekura»
«Guarda cara che la Cosmic fa presto a reclutare un’altra attriciucola»
«Attriciucola?» obbiettò indignata Esther. Il portellone della nave, invisibile dall’esterno, cominciò ad aprirsi. Esther, guardò eccitata: qualche decina di metri più sotto una folla festante si preparava a celebrare il solstizio. «Attriciucola! Tsk! Voi siete degli sfigati come loro. Io sono una dea!»